Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 18/08/2015, a pag.1-25, l'editoriale di Roberto Toscano dal titolo " Medio Oriente, ecco che cosa sta cambiando ".
Ci scusiamo con i nostri lettori per il tempo che dovranno sottrarre ad altre attività più interessanti, ma leggere Toscano è utile per capire come un quotidiano di grande tradizione come La Stampa abbia affidato i commenti sul Medio Oriente a un ex ambasciatore incapace persino di scrivere riassuntini accettabili. Se guardiamo al passato possiamo farcene una ragione, allora c'era Igor Man a dettare la linea, erano gli anni in cui Arafat dettava legge in Occidente, ma oggi con Abu Mazen e Hamas, il terrorsimo islamico che insanguina mezzo mondo e Israele l'unica isola democratica minacciata, qualcosa anche alla Stampa dovrebbero aver capito. Invece, niente ! è praticamente tutto come prima.
Un consiglio, se sarete riusciti a digerire il polpettone Toscano: provate a chiedervi che cosa ha scritto, ricordare tante banalità tutte insieme è un esercizio mnemonico non da poco.
Roberto Toscano
Ecco l'articolo:
Robert Hunter - prestigioso esperto americano di questioni internazionali, per cinque anni rappresentante alla Nato e in precedenza Direttore per il Medio Oriente alla Casa Bianca - non ha dubbi. In questi giorni, quanto mai convulsi e segnati da uno stillicidio di attentati e orrori vari, quello cui stiamo assistendo è «l'ouverture di una Grande Opera sul Medio Oriente». La svolta, secondo Hunter ma non solo, trova la sua origine nell'accordo raggiunto a Vienna sulla questione nucleare iraniana. Certo, i principali protagonisti sembrano impegnati a negarlo. Obama lo fa per non rafforzare tra i membri del Congresso i timori che l'intesa con Teheran possa estendersi fmo a configurare un modus vivendi non privo di aree di convergenza sulla falsariga di quanto sta avvenendo in Iraq, dove americani e iraniani di fatto sono alleati militarmente (come già lo furono nell'attacco ai Talebani) contro lo Stato Islamico. Da parte sua il Leader Supremo Khamenei, senza la cui autorizzazione i negoziatori iraniani non avrebbero mai potuto accettare i compromessi necessari a permettere un'intesa, ci tiene a ribadire che gli americani non sono affidabili, e che non è concepibile estendere il «metodo nucleare» ad altre questioni che vedono l'Iran contrapposto al Grande Satana. Faremmo però bene a non prendere troppo sul serio queste interpretazioni restrittive dell'intesa sul nucleare. Nelle prove d'orchestra, si sa, non mancano le note stridenti. Comunque in questo caso sarà particolarmente difficile, mancando un direttore d'orchestra, raggiungere il necessario concerto armonico. Ma le cose stanno già cambiando, e piuttosto in fretta. Lo dimostra un accentuato attivismo della politica estera della Russia, e in particolare il tentativo di aprire con l'Arabia Saudita un dialogo in vista di sbloccare la situazione siriana. Si tratta di un attivismo che non è visto con ostilità da parte di Washington, che già ha dato atto, sorprendentemente in un momento di non superati contrasti sull'Ucraina, dell'atteggiamento costruttivo della Russia nel corso del negoziato con l'Iran. Anche se siamo e rimarremo ben lontani dall'influenza esercitata un tempo nella regione dalla Russia sovietica, Mosca rimane interessata a mantenere un proprio ruolo, sia per ragioni geopolitiche che per le preoccupazioni nei confronti della spinta jihadista ai suoi confini meridionali, resa particolarmente inquietante dalla presenza di numerosi ceceni nelle file dei gruppi isla-misti più radicali. Altro importante segnale di cambiamento è la relativa moderazione dei sauditi e degli altri Paesi del Golfo nella loro reazione ufficiale all'accordo con l'Iran, cui pure si erano opposti con toni non meno intransigenti di quelli del governo israeliano. Certo, la loro riluttante accettazione va vista come un successo della diplomazia di Washington, che l'ha incentivata con la promessa di colossali forniture militari. Ma è anche vero che i sauditi sono oggi seriamente preoccupati della minaccia di un sempre meno controllabile mostro jihadista, e inoltre sembrano arrivati alla conclusione di non potersi permettere, anche in relazione alle difficoltà del loro intervento militare nello Yemen, di sostenere una linea oltranzista con gli iraniani, che restano il loro avversario principale ma che oggi, dopo l'accordo nucleare, risulta difficile pretendere di escludere da un discorso regionale. L'agenda medio-orientale elenca una serie di problemi tutti drammatici, tutti di difficile soluzione, ma sembra evidente che a questo punto la priorità sia costituita dalla Siria. Sarà appunto sulla questione siriana che si metterà alla prova la possibilità di un'azione congiunta che dovrà necessariamente coinvolgere Stati Uniti, Arabia Saudita, Russia, Iran e Turchia. I primi tre Paesi hanno già cominciato a muoversi attraverso sondaggi ed esplorazioni in vista di identificare quale potrebbe essere un terreno minimo di intesa. L'Iran, e lo dimostra il viaggio che Zarif ha effettuato nei giorni scorsi a Damasco, ribadisce il proprio appoggio a Assad, ma non è un mistero che sarebbe disposto a fare la propria parte nella ricerca di una soluzione le cui «linee rosse», per Teheran, non sembrano comprendere la garanzia, se non transitoria, di una permanenza di Assad al potere, ma piuttosto quella di escludere che Damasco cada nelle mani del radicalismo jihadista convertendo la Siria in un focolaio di estremismo anti-sciita e in un invalicabile ostacolo al mantenimento dei canali di appoggio e rifornimento iraniano agli Hezbollah libanesi. La linea prioritaria di politica estera dell'attuale governo iraniano non è certo misteriosa: rompere l'isolamento, rilanciare l'economia sottraendola alla morsa delle sanzioni, essere inclusi e contare di più nel perseguimento di interessi nazionali in chiave di sicurezza ed influenza regionale. Si tratta di obiettivi che non necessariamente risulteranno, di volta in volta, compatibili con gli interessi degli altri Paesi della regione o quelli di Stati Uniti ed Europa. Ma è importante, per capire che spazio esista per la politica e la diplomazia, rendersi conto del fatto che per conseguire i propri obiettivi prioritari l'Iran, pur mantenendo la retorica antagonista e i legami con i propri alleati, sembra oggi disposto a fare reali concessioni - del resto come ha fatto, con grande scandalo delle correnti più oltranziste della Repubblica islamica, nel negoziato nucleare. Quello che è chiaro è che l'atroce guerra civile siriana potrà terminare solo se lo vorranno i rispettivi «padrini» delle due parti che si combattono. E' qui che entra necessariamente in campo anche la Turchia, che ha funzionato da connivente retrovia per tutti i combattenti anti-Assad, compresi Isis al-Nusra. Le previsioni in questo caso sono tuttavia particolarmente difficili, dato che soprattutto nelle ultime settimane il Presidente turco Erdogan ha dato segnali di un oltranzismo di problematica razionalità e certo di difficile sostenibilità. Gli aerei turchi, teoricamente parte della coalizione contro lo Stato Islamico, bombardano i curdi piuttosto che i jihadisti. Ora, se è vero che manca in questo caso un direttore d'orchestra, rimane anche vero che sia Arabia Saudita che Turchia potranno essere convinte ad abbandonare le loro poco ambizioni massime e a convergere su un disegno di stabilizzazione regionale soltanto da un'azione pressante condotta da Washington, finora troppo indulgente nei confronti del sostanziale appoggio di entrambi i Paesi al radicalismo sunnita in Siria, Iraq e anche oltre, in particolare in Libia.
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