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Romanticismo politico Cari amici, permettetemi di prolungare ancora la mia riflessione sulla difesa di Heidegger fatta da certi intellettuali che sostengono “era nazista sì, ma anche un grande filsofo, non possiamo fare a meno della sua filosofia”. Ma in molti casi è possibile distinguere la filosofia dal sostegno a regimi dittatoriali e sanguinosi (forse non per Platone, o almeno non la pensava così Karl Popper, che contro le compromissioni politiche di Platone e Hegel scrisse proprio negli anni in cui Heidegger si atteggiava a filosofo del nazismo “La società aperta e i suoi nemici”). Il servilismo dei filosofi e degli artisti nei confronti del potere è una storia vastissima, che in Occidente inizia forse con Omero (in fondo la sigla di una scuola di poeti girovaghi di corte, pagati da chi li sentiva lodare i loro antenati mitici) e non è certo ancora finita. Ma nel Novecento o forse già dal Romanticismo, questa storia si è accresciuta di un nuovo capitolo, che potremmo chiamare “servilismo sovversivo” (Raymond Aron l'ha chiamato nel titolo di un celebre pamphlet “L'oppio degli intellettuali”). Chiunque prometta di abolire la libertà, di distruggere la democrazia, di guidare con mano ferma una società militarizzata: Hitler e Stalin, Mao e Mussolini, Castro e Nasser, Khomeini e Ho Chi Min e Arafat e Chavez. E magari anche il piccolo aspirante dittatore locale Almirante e Togliatti e magari anche Brandirali (per chi non se lo ricordasse, era il grande leader di “Servire il Popolo”, quel gruppo maoista che faceva i matrimoni proletari; dopo qualche anno ne ho risentito parlare come esponente di Comunione e Liberazione) e Rauti e Capanna e Adriano Sofri e... I leader esotici sono naturalmente meglio dei leaderini locali, anche perché di solito hanno vinto e dispongono di soldi per pagare la pubblicità, o almeno dei bei viaggi con trattamento VIP. E' interessante notare che non c'è differenza su questo punto come su molti altri fra intellettuali militanti di destra e di sinistra; il meccanismo di corruzione è esattamente lo stesso. Fra i pittori comunisti che dipingevano Stalin e il “realizmo socialista” e quelli fascisti che ritraevano il Duce e la fierezza del popolo romano rinato non c'è alcuna differenza, spesso si tratta anche delle stesse persone. Lasciamo stare la corruzione e il mercimonio, che non sono mancati in senso positivo (ci sono elenchi dei versamenti del fascismo ad artisti, giornalisti e intellettuali) e negativo (lo scrittore che non fosse “compagno di strada” dei comunisti negli anni Cinquanta e Sessanta in Italia non poteva praticamente pubblicare; in Russia e nei paesi dell'Est rischiava seriamente la vita - se volete dettagli leggete Kundera, Bulgakov, Solženicyn. Anche se immaginiamo tutti puri e santi, resta il problema del “romanticismo politico”, per rubare l'espressione a uno di questi intellettuali compromessi col nazismo, che è ancora dominante nelle università americane, per esempio, dove non si può non essere (neo- o post- o anche solo paleo-marxisti, postcoloniali, saidisti, e dunque antisraeliani più o meno palesemente antisemiti).
C'è una complicità di fondo in questo atteggiamento di “impegno”, di “servizio” e quindi di disonestà intellettuale, di rifiuto del vincolo dei fatti, nella grande maggioranza degli intellettuali e degli artisti europei ormai da un secolo, sia quelli di destra che quelli di sinistra. C'è dunque comprensione, simpatia, che porta a perdonare anche il nazismo di Heidegger.
E' un atteggiamento diffuso, qualcosa di più di una semplice difesa corporativa, è l'idea che consegue a ciò che un altro filosofo antisemita e antidemocratico come Fichte chiamava “la missione del dotto”. Ugo Volli |
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