Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 09/08/2015, a pag.13, due servizi che aiutano a capire i contenuti di una iniziativa di grande importanza.
Tonia Mastrobuoni
Esemplare la spiegazione che ne dà Adachiara Zevi nell'intervista di Giacomo Galeazzi.
Tonia Mastrobuoni: "Germania, le 'Pietre d'inciampo' spaccano la comunità ebraica
A Berlino, soprattutto attorno alla vecchia e alla nuova sinagoga, è impossibile ignorarle. Sono piastre di ottone minuscole, grandi quanto un sanpietrino, con una breve, toccante iscrizione. Si incrociano ovunque, davanti ai portoni e agli ingressi dove sono avvenute le deportazioni naziste. Recano solo il nome della vittima, la data di nascita, la data di deportazione e quella di morte. Solo nella capitale tedesca ce ne sono seimila. In tutto l’artista Gunter Demnig ne ha già incise cinquantamila, esportate anche in altri Paesi, in Italia, in Austria, in Polonia, ovunque siano arrivate le persecuzioni hitleriane (la numero 50mila è stata collocata a Torino in memoria di Eleonora Levi morta ad Auschwitz). L’artista di Colonia le ha chiamate «Stolpersteine», «pietre d’inciampo». Il senso è chiaro: fare in modo che nessuno possa dimenticare la dimensione delle persecuzioni, che si inciampi di continuo nel ricordo delle deportazioni. Ad oggi quello di Demnig è il più esteso monumento alle atrocità naziste del mondo. I divieti Ma qualcuno è riuscito a farle vietare. E proprio nella città degli esordi del Fuehrer, delle prime violente scorribande delle camicie brune, dello sventato putsch nazista del 1922: Monaco di Baviera. Nel capoluogo bavarese le pietre d’inciampo sono bandite: dal 2004 Charlotte Knobloch, che le ritiene offensive, si batte perché restino confinate alle abitazioni private. Nel 2014 la capa della comunità ebraica di Monaco e dell’Alta Baviera ha spiegato il senso della sua guerra: «Mi fanno venire in mente le persone già buttate a terra che venivano prese a calci con gli stivali di ferro fino a farle montare sui camion che li deportavano. Persone rannicchiate, ferite, in fin di vita o già morte. Queste pietre possono essere bersaglio di sputi, sporcizia, graffi, escrementi animali o essere oggetto di gesti offensivi». La comunità monacense è compatta e appoggia la battaglia di Knobloch, così come le iniziative varie nate in questi anni contro le pietre d’inciampo che accusano i sostenitori di essere spesso contro Israele o l’artista che le ha inventate di fare soldi con l’Olocausto. Anche fuori da Monaco le pietre hanno fatto discutere: il capo della comunità ebraica di Amburgo, Daniel Killy, ha accusato Demnig brutalmente di «aver fatto i milioni con milioni di vittime». Inoltre lo stesso artista ha contribuito ad attirare l’odio di una parte della comunità su di sé con una gaffe mostruosa come l’utilizzo di termini nazionalsocialisti sulle placche. Su una pietra aveva scritto: «Gewohnheitsverbrecher», criminale recidivo, ma è un termine cancellato dopo il nazismo perché sottintende che qualcuno lo sia quasi geneticamente. Per ora il presidente della comunità ebraica tedesca, Josef Schuster, difende le Pietre d’inciampo: «personalmente sono dispiaciuto per la decisione del comune di Monaco». E il gruppo che si batte per introdurle anche a Monaco non si perde d’animo. Ernst Grube, sopravvissuto a Theresienstadt, ha raccontato ieri alla Sueddeutsche Zeitung che vuole una pietra d’inciampo da dedicare al padre di sua moglie. È indignato di doversi battere «per quella pietra minuscola», nella «capitale del movimento», nella città della «resistibile ascesa» del Fuehrer, come la chiamò Bertolt Brecht.
Che cosa rappresentano
Le Pietre d’inciampo (in tedesco Stolpersteine) sono un’iniziativa dell’artista tedesco Günter Demnig per mantenere la memoria nelle città europee dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti. L’iniziativa, attuata in diversi Paesi, consiste nell’incorporare, nel selciato stradale delle città, davanti alle abitazioni che sono state teatro di deportazioni, dei blocchi in pietra muniti di una piastra in ottone. L’iniziativa è partita dalla città di Colonia nel 1995 e ha portato, a inizio 2015, all’installazione di oltre 50.000 «pietre» (la cinquantamillesima è stata posata a Torino). I Paesi interessati sono: Italia, Germania, Austria, Ungheria, Ucraina, Cecoslovacchia, Polonia, Paesi Bassi. In tutta Europa sono oltre 50mila le piccole piastre d’ottone alla memoria incastonate nei marciapiedi delle città 50 mila L’artista Günter Demnig è nato a Berlino il 27 ottobre del 1947. Nel 1995 ha creato le «Pietre d’inciampo»
Giacomo Galeazzi:" Ma servono a non dimenticare la Shoah e non sono dedicate soltanto agli ebrei
Giacomo Galeazzi
Adachiara Zevi
Quella che viene raccontata su queste pietre è una storia inequivocabile e rappresenta un antidoto al negazionismo». L’architetto e storico dell’arte Adachiara Zevi non si stupisce del dibattito tedesco tra pro e contro. «Accade anche qui», spiega la presidente della fondazione culturale Bruno Zevi e di «Arte in memoria», l’associazione che si occupa in Italia del progetto «Memorie d’inciampo». Centinaia di pietre installate in decine di città per ricordare i deportati razziali, politici e militari. «Mappa urbana di luoghi della memoria che si compongono in monumento democratico per non dimenticare». Dove sono queste pietre? «A Roma in più 220 luoghi. Ghetto, centro, periferie. A via Urbana 2 un sampietrino è dedicato a don Pietro Pappagallo, il sacerdote che durante l’occupazione nazista nascose perseguitati. In via Madonna dei Monti si rende omaggio ai familiari di Giulia Spizzichino, assassinati ad Auschwitz e alle Fosse Ardeatine. A Venezia, Torino, Prato, Brescia, in altre città. Memoriale diffuso, dedicato indifferentemente a tutti deportati». Un messaggio rivolto a chi? «I primi a inciamparci sono gli inquilini dei palazzi dove sono le pietre, poi i cittadini che passano per strada. È una memoria democratica. Pietre identiche per tutti sulle quale sono scritti nome, cognome, date di nascita ,deportazione, morte. Segno democratico e anti-gerarchico, a differenza di quanto accade al cimitero dove chi ha i soldi si fa costruire un monumento funebre e chi non li ha finisce nel semplice loculo». Quali sono i luoghi-simbolo? «Due pietre d’inciampo sono davanti all’entrata del carcere di Regina Coeli, in ricordo dei detenuti politici, Jean Bourdet e Paskvala Blazevic. Un mosaico della memoria le cui tessere restituiscono ai deportati dignità di persone e un luogo dove ricordarli. Le pietre sono tutte importanti allo stesso modo. Aiutano a capire che le deportazioni non sono avvenute solo al ghetto e non solo il 16 ottobre 1943, data della grande razzia di ebrei romani. Ma anche in borgate come Valla Aurelia e Pigneto. Le pietre davanti alla caserma di viale Giulio Cesare riportano alla luce una pagina poco conosciuta: una settimana prima della razzia al ghetto, i nazisti deportarono 2mila carabinieri ritenendoli inaffidabili. Altre raccontano deportazioni di antifascisti. Memoria collettiva». Qualcuno si oppone alle pietre? «Come in Germania resistenze ci sono anche in Italia. E non solo da negazionisti ma anche da chi non le vuole vedere uscendo da casa propria. Malgrado le pietre d’inciampo siano una presenza discreta, il loro senso è molto forte. Non si può fare a meno di vederle e di leggere cosa c’è scritto sopra. Vengono commissionate dai familiari. Partono da una memoria privata ma il luogo in cui sono installate è pubblico. La responsabilità di farsi carico di questa memoria passa dalla famiglia alla collettività. Le pietre sono parte delle città e la loro collocazione rende impossibile sostenere che i campi di sterminio non siano esistiti. Servono a ricordare cosa è successo durante la Shoah». A cosa servono in concreto? «Riconoscere quello che è successo è il primo passo affinché questo orrore non accada mai. Sono piccole targhe di ottone infisse nell’asfalto delle vie per ricordare chi si voleva ridurre soltanto a un numero. Attraverso le pietre chiunque può fermarsi a riflettere e fare memoria di ciò che è accaduto. Dimostrano che gli ebrei furono deportati in diversi periodi e da tutta Roma, non solo dal ghetto. Testimoniano la vastità della deportazione politica».
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