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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
04.08.2015 Israele scende in Piazza Rabin per ricordare Alì e Shira
Commento di Etgar Keret

Testata: Corriere della Sera
Data: 04 agosto 2015
Pagina: 24
Autore: Etgar Keret
Titolo: «Ma quanti eravamo a Tel Aviv? Non tutti»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 04/08/2015, a pag. 24, con il titolo "Ma quanti eravamo a Tel Aviv? Non tutti", il commento di Etgar Keret.

La critica di Etgar Keret al proprio Paese è ingiusta. A migliaia sono scesi in piazza per ricordare il piccolo Alì, assassinato da terroristi ebrei. Inoltre, il mondo politico israeliano si è schierato, unito, condannando con forza l'accaduto. Alle parole, inoltre, stanno seguendo i fatti, con un inasprimento sostanziale della legislazione sul terrorismo ebraico di quelle frange estremiste che, oltre a essere criminali, fanno il gioco del terrorismo palestinese.

Ecco l'articolo:

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Etgar Keret


Piazza Rabin, a Tel Aviv: uno dei polmoni della democrazia israeliana

«Non ci sono tutti», ha esclamato mio figlio, sabato, sui gradini del municipio di Tel Aviv in Piazza Rabin, «ne arrivano altri, giusto?». Erano già le 9, era passata un’ora e mezza dall’inizio ufficiale della manifestazione contro la violenza, l’istigazione. Non ha ancora 10 anni, ma ha già visto quella piazza piena di gente che dimostrava per cause meno importanti ed è sicuro che, come in un buon film western, la cavalleria sta per arrivare, che si riverseranno in piazza decine, forse centinaia di migliaia di cittadini inorriditi dai terribili eventi occorsi questa settimana in Israele. Come è possibile che a manifestare contro l’assassinio di bambini e innocenti vengano meno persone di quelle che parteciperebbero a una protesta contro il prezzo della case o il blocco edilizio nelle zone degli insediamenti? Il giorno dopo, i giornali avrebbero scritto che c’erano «migliaia di dimostranti», ricorrendo al termine «migliaia» solo per nascondere gli spazi vuoti nella piazza. Abili fotografi avrebbero elaborato delle immagini per le prime pagine che fanno sembrare grande la folla relativamente piccola.

Questo triste sforzo per aumentare la portata della manifestazione non è dovuto a misteriose ragioni politiche, ma a un senso di vergogna collettivo, perché la verità imbarazzante è che una manifestazione contro l’uccisione di neonati palestinesi e l’accoltellamento di partecipanti alla parata dell’orgoglio omosessuale non spinge le persone a uscire di casa, certamente non in questo agosto particolarmente caldo e umido. E questa verità non è bella per nessuno. Sono abbastanza vecchio da ricordare Piazza Rabin, quand’era ancora chiamata I re d’Israele, in numerose occasioni piena di manifestanti: ricordo, da teenager, centinaia di migliaia di persone che protestavano contro la guerra del Libano dopo il massacro di Sabra e Shatila, e una folla così piena di speranza alla manifestazione per l’accordo di pace, dopo il quale fu assassinato Yitzhak Rabin. La ricordo piena di uomini con la kippah lavorata a maglia, che protestavano contro il disimpegno, e i giovani appassionati che cantavano alla manifestazione a favore della giustizia sociale.

Ma oggi è mezza vuota. Dove sono tutte le persone che allora la riempivano? I giovani miseramente sconfitti nella loro battaglia per la giustizia sociale hanno perso la loro speranza e fiducia nell’efficacia di questo strumento democratico? Quelli di sinistra, che vengono a sudare in questa piazza tutte le volte che si perpetra una nuova ingiustizia nel nostro Paese — un’evenienza non affatto insolita — cominciano a essere stanchi? E dove sono quei coloni con i loro yarmulkes (copricapo tipico degli ebrei) che riempivano rapidamente questa piazza e qualunque altro posto in cui avevano luogo le manifestazioni contro la demolizione degli insediamenti illegali, ma che scelgono di non protestare contro l’assassinio di neonati? Pensano che, quando si tratta di palestinesi e della comunità Lgtb (persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender), il comandamento «Non uccidere» sia stato cancellato dalle loro tavole di pietra? Che qui abbiamo una sorta di divisione dei compiti: la destra manifesta per la sacralità della terra, e tutto quello che riguarda l’omicidio di innocenti non ebrei o eterosessuali ricade fuori dalla loro giurisdizione?

E quelli che non seguono la politica ma vivono semplicemente qui e cercano di sopravvivere: pensano anche loro che questa manifestazione non abbia niente a che fare con le loro vite? Sembra che abbiamo perso la convinzione di poter cambiare qualcosa; il fatto è che persino quei pochi che hanno partecipato alla manifestazione sembrano stanchi. Molti di loro sono seduti sul bordo della fontana e sui gradini del municipio. Solo pochi sono venuti, e non hanno neanche la forza di stare in piedi.

Gli oratori hanno già finito i loro discorsi e la folla ha cominciato a disperdersi, ma mio figlio si rifiuta di andarsene. Nella sua logica, chiunque creda sia sbagliato uccidere bambini e accoltellare innocenti dovrebbe uscire a manifestare contro questi misfatti. Secondo lui, nel nostro Paese, ci dovrebbero essere milioni di persone che la pensano così, milioni. Se la gente non è ancora arrivata, insiste, è solo perché ha qualche impedimento. Forse il figlio non trova la scarpa o la babysitter è in ritardo. È solo questione di tempo perché vengano, è chiaro. «Aspettiamo ancora un po’», dice, avvolgendo la sua manina alla mia mano. «Ancora un po’, finché non arrivano». L’unica risposta che riesco a borbottare è che è già tardi, e potrebbe passare molto, davvero molto tempo prima che arrivi la gente che dovrebbe esserci.

(Traduzione di Ettore Claudio Iannelli)

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