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Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
28.07.2015 Alleanze pericolose: l'asse Obama-Erdogan per battere lo Stato islamico
Cronaca di Guido Olimpio, Arturo Zampaglione intervista il politologo Steven Cook

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Guido Olimpio - Arturo Zampaglione
Titolo: «Patto Usa-Turchia: in Siria una zona 'liberata dall'Isis' - 'In questo piano troppi lati oscuri, non mi fido di Ankara'»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 28/07/2015, a pag. 14, con il titolo "Patto Usa-Turchia: in Siria una zona 'liberata dall'Isis' ", la cronaca di Guido Olimpio; dalla REPUBBLICA, a pag. 15, con il titolo "In questo piano troppi lati oscuri, non mi fido di Ankara", l'intervista di Arturo Zampaglione a Steven Cook, politologo del "Council on Foreign Relations".

Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio: "Patto Usa-Turchia: in Siria una zona 'liberata dall'Isis' "

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Guido Olimpio

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La Turchia di Erdogan: un altro alleato pericoloso per Barack Obama

È un accordo di principio, con molti dettagli da definire. Gli Usa hanno confermato che c’è un’intesa con Ankara per la creazione di una zona «libera dall’Isis» in uno spicchio di Siria. Un’area che dovrà essere ripulita dai militanti e che nei progetti turchi dovrà diventare anche santuario per i profughi siriani. Con un briefing ai media, funzionari statunitensi hanno disegnato la mappa. La fascia sarà lunga circa 90 chilometri, partirà da Azaz e si prolungherà fino a Jarabulus, al confine con la Turchia. Quanto alla profondità ci sono ancora discussioni, ma potrebbe essere di una quarantina di chilometri fino a sfiorare al Bab, a nord di Aleppo. Un teatro che contiene un simbolo: Dabiq.

Secondo la visione apocalittica dello Stato Islamico è il luogo che farà da teatro alla battaglia della fine del mondo tra i crociati e i mujaheddin. Il piano, che ha avuto una lunga gestazione, vedrà attacchi aerei congiunti americani e turchi per neutralizzare la presenza jihadista. L’Us Air Force potrà finalmente usare la base di Incirlik (sud della Turchia), una postazione assai vicina ai bersagli. E una volta compiuta l’operazione, toccherà a gruppi ribelli siriani assumere il controllo. Quali insorti? Il Pentagono e la Cia ne hanno addestrati appena 60, impegnati nel settore sud della Siria. Dunque troppo pochi. Probabilmente saranno quelli sponsorizzati dai servizi turchi, uomini dell’Esercito libero. In questo modo si creerà un quadrilatero, difeso dal cielo, che terrà distanti i caccia di Assad: una no fly zone di fatto.

La Casa Bianca è contraria all’uso di questa formula e preferisce la soluzione più vaga. Ankara, invece, la vuole. Differenze che potrebbero generare problemi in un quadro già ambiguo. Per il momento non è prevista la presenza di reparti terrestri turchi. Ma è possibile che saranno i fatti a determinarlo. I pretesti non mancano, specie con la questione Kurdistan sempre aperta. L’enclave impedirà ai curdi siriani di Afrin — a ovest — di unirsi ai loro compagni della regione di Kobane. Non è un caso che Ankara abbia accelerato il programma dopo che il movimento separatista, affiliato al Pkk, ha messo a segno molti successi contro l’Isis. L’ultimo, importante, nella giornata di ieri: la liberazione di Sarrin. Vittorie conseguite con il decisivo appoggio aereo della coalizione.

Erdogan teme di più la rinascita del Kurdistan che i progetti del Califfato. Li mette sullo stesso piano, cita la «doppia minaccia», ma tutti sanno che la priorità del Sultano è la lotta ai separatisti. La zona libera avrà dunque il ruolo di argine e magari darà la scusa alle unità scelte di agire — se necessario — contro il nemico. Scenario che i capi dell’YPG e del PKK ritengono molto probabile. Anche perché la tregua curdo-turca è ormai saltata. Ankara ha usato l’aviazione per colpire gli accampamenti, gli insorti hanno attaccato i soldati. Violenze (e proteste) che hanno coinvolto anche Istanbul e altri centri dove la polizia ha condotto retate massicce: 1050 gli arresti, coinvolti estremisti di sinistra e affiliati all’Isis. Di tutto questo ne parlerà la Nato oggi a Bruxelles.

La Turchia, usando l’articolo 4, ha chiesto una riunione d’emergenza per affrontare quella che ritiene una minaccia all’integrità territoriale dell’Alleanza. E’ la quinta volta che avviene in 66 anni. Fonti atlantiche hanno escluso che Ankara solleciti un aiuto «concreto» e il segretario Nato Jens Stoltenberg ha auspicato un’autodifesa proporzionata. I partner sono d’accordo sulla risposta all’Isis ma ritengono che con i curdi debba essere perseguita la via negoziale. L’incontro, a livello di ambasciatori e a porte chiuse, non sarà comunque facile.

LA REPUBBLICA - Arturo Zampaglione: "In questo piano troppi lati oscuri, non mi fido di Ankara"

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Steven Cook

Steven Cook è scettico, a dispetto di tanti commenti entusiasti sulla svolta anti-Is di Ankara e sulla creazione della “zona di interdizione” nel nord della Siria. «Non vedo che cosa possa uscire di buono dall’accordo tra Stati Uniti e Turchia», dice. E spiega: «Avrà un effetto molto limitato nella guerra contro lo Stato Islamico e rischia di trascinare il Pentagono in una missione indesiderata, mentre i turchi ne approfitteranno per una escalation contro i curdi». Cook è l’esperto di punta sulla Turchia del Council on foreign relations, il più prestigioso centro studi americano di politica estera, oltre che l’autore di vari saggi sulla regione, tra cui Ruling But Not Governing , pubblicato dalla John Hopkins University Press.

Perché allora, di fronte a tanti rischi, Washington e Ankara hanno deciso di procedere in questa direzione? «Gli Stati Uniti avevano sicuramente bisogno della base di Incirlik, nel sud della Turchia, per le missioni dei cacciabombardieri e dei droni in territorio siriano. Finora i velivoli partivano dal Golfo, cioè da molto lontano, a discapito dei costi, dei tempi e dell’efficienza dei raid. Per la Turchia è diverso: da tempo il presidente Erdogan chiedeva una “no-fly zone” nel nord della Siria. In questo modo non solo ottiene in sostanza quel che voleva, anche se la “zona di interdizione” non sarà formalmente una “no-fly zone”, ma potrà cavalcare il nazionalismo turco ai fini di politica interna».

A differenza di altri esperti che hanno parlato di svolta storica nella regione e di “game changer”, lei non attribuisce molto peso alla decisione turca di contrastare lo Stato Islamico. Perché? «È presto detto: primo, perché appena qualche mese fa i turchi sono rimasti con le mani in mano mentre i jihadisti del Califfato cercavano di annientare i curdi nella città di confine di Kobane. Secondo, perché, subito dopo l’accordo della settimana scorsa con Washington, i turchi hanno lanciato un solo attacco contro l’Is e ben due contro i curdi. Terzo, perché di fatto i turchi hanno finora favorito l’Is in funzione anti-Assad, e quindi è tutto da dimostrare che nel futuro faranno sul serio».

Quali sono le ragioni per cui Ankara considera così importante la creazione di una zona-cuscinetto nel Nord della Siria? «Non solo per rimpatriare quei due milioni di siriani che si sono rifugiati in Turchia, né solo per proteggere la sua frontiera meridionale da infiltrazioni e attacchi, ma soprattutto perché il presidente Erdogan ritiene che indebolirà a tal punto il regime di Bashar al-Assad, suo grande nemico, da farlo collassare».

Ma la zona di interdizione presenta anche una serie di problemi complessi. «Non sono un esperto militare, ma è chiaro che il piano presenta moltissimi lati oscuri. Che succederà se i caccia o gli elicotteri del regime di Assad voleranno all’interno della “zona di interdizione”? Saranno abbattuti senza una autorizzazione dell’Onu? E chi difenderà la zona di interdizione sul terreno dalle incursioni dei jihadisti? Non saranno certo sufficienti quei pochi elementi già addestrati dagli Stati Uniti, anche se il capo di stato maggiore del Pentagono ha chiarito che si tratta di un programma di più lungo periodo. E poi c’è il rischio di un maggiore coinvolgimento delle forze armate americane. Finora la Casa Bianca ne ha limitato la presenza all’Iraq, dove sta per scattare la controffensiva per riprendere dalle mani del Califfato la città di Ramadi, escludendo ogni ruolo in Siria. Ma basterà poco per trascinare i militari americani in una posizione scomoda e indesiderata».

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