Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 27/07/2015, a pag. 12, con il titolo "Barricate contro Erdogan: 'Basta bombe sui curdi'; Istanbul, ucciso un agente", la cronaca di Marco Ansaldo.
Marco Ansaldo
Proteste a Istanbul
Un poliziotto ucciso da un proiettile. Steso a terra nel quartiere feudo dell’estrema sinistra, Gazi. Dopo i funerali di un giovane appartenente a un gruppo marxista leninista, il Dhkp-C, morto venerdì durante la retata di 6000 militanti vicini anche al Pkk curdo. La lunga giornata di Istanbul, chiamata dai pacifisti a riunirsi per protestare contro la guerra aperta dalla Turchia ai ribelli nascosti sui monti del Nord Iraq, finisce in tragedia. Era cominciata in sordina, nel quartiere centrale di Aksaray, all’insegna del Baris bloku , il movimento del “Blocco della pace”. Mille cartelli blu, inneggianti alla riconciliazione, si erano alzati all’improvviso come fossero uno, davanti alla polizia turca in assetto da battaglia, mitragliette in pugno e visiere calate. «La Turchia non vuole la guerra », «Erdogan basta».
Sul grande slargo migliaia di ambientalisti e pacifisti erano scesi in strada nel pomeriggio per ricordare i 32 morti di una settimana fa a Suruc, nell’area curda di fronte alla città siriana di Kobane, per la bomba azionata da un kamikaze del Califfato. Ma, in mezzo, quattro giorni e quattro notti di attacchi dei jet turchi. Lanciati non solo contro lo Stato Islamico in Siria. Ma anche contro il Pkk, il movimento curdo fino a ieri corteggiato da Tayyip Erdogan per ottenere i voti sufficienti a trasformare il Paese in una Repubblica presidenziale sotto il suo tacco. Invano. Alla prova del voto, a giugno, il sogno del leader è fallito, e i curdi hanno trionfato. Ora la vendetta si consuma sulle montagne curde del Nord Iraq, nelle basi dove i guerriglieri a cui Ankara aveva promesso una strada per la pace sono diventati nello spazio di un lampo il nemico da abbattere. Quanto e forse più dei terroristi della jihad, la guerra santa. Mentre a est si bombarda, e il Pkk reagisce facendo saltare a Diyarbakir un automezzo militare con due soldati sopra, a Istanbul non si capisce il perché.
La piazza di Aksaray se lo chiede a gran voce. Erdogan non riesce formare un governo, vuole tornare al voto a novembre, e stavolta punta tutto sulla sconfitta del partito curdo che ne ha dissolto il disegno per tornare a governare da solo, lui e il suo partito conservatore di origine religiosa, da 12 anni unico al potere. La metropoli più laica e occidentale della Turchia non ci sta. Sotto il caldo che attanaglia ci sono discussioni, confusione, perquisizioni. Gendarmi con la pettorina rossa mettono le mani dentro ogni borsa. Dopo Suruc, e le 32 persone falciate mentre si riunivano per ricostruire la biblioteca di Kobane, ogni assembramento è adesso a rischio. La sera il corteo si scioglie nella tensione, ma nessuno scontro reale. Ma è più su, a Gazi, quartiere a nord di Istanbul, dove le forze dell’ordine devono intervenire con lacrimogeni, idranti e pallottole di gomma. Disperdono i compagni del ragazzo di confessione alauita, la minoranza musulmana liberale, ucciso nel blitz di venerdì.
Volano pietre e bombe molotov. Si ergono barricate. Partono proiettili. E a terra finisce un agente della polizia. E le manifestazioni si rincorrono nel Paese. A Cizre venerdì un uomo è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco negli scontri fra polizia e dimostranti filo-curdi. Ad Adana mezzi della polizia corrono nella notte con le fiamme appiccate sul tetto. Aspri confronti di strada anche a Suruc, la città dell’ultimo attentato. Oltre il confine, nel Nord Iraq, il Pkk ha già dichiarato rotta la tregua che reggeva dal 2013. «Di fronte all’aggressione abbiamo il diritto di difenderci», aggiungono. Ma tutto è relativo in un Paese che ha la fortuna di essere occidentale o orientale a seconda dei momenti e dei richiedenti.
Così a favore della Turchia si esprimono gli Stati Uniti che condannano invece con fermezza il Pkk, spezzando ben più di una lancia a favore di Erdogan, decisosi dopo la bomba di Suruc e le fortissime critiche interne a scendere in campo scate- nando i raid in Siria contro il Califfato, approfittandone per attaccare allo stesso tempo i curdi. Alla fine Ankara ha buon gioco nell’imporsi per far convocare un vertice straordinario della Nato, invocando l’articolo 4 del Trattato, che permette di chiamare gli alleati a consulto. I suoi ambasciatori si vedranno domani nel summit di emergenza, come annunciato dal segretario generale Jens Stoltenberg: «La Turchia ha richiesto l’incontro dopo gli efferati attacchi terroristici degli ultimi giorni, e anche per informare gli alleati delle misure che sta intraprendendo».
Solo Angela Merkel ieri si è schierata dalla parte dei curdi, e ha esortato Ankara a «non abbandonare il processo di pace». Il resto dell’Europa, di fronte ai raid che sconvolgono l’area prospicente il sud-est dell’Anatolia, rimane silente. E anche su questo la piazza di Istanbul non trova risposte.
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