Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 25/07/2015, a pag. 12-13, con il titolo "Ora cambieranno tutti gli equilibri militari del Medio Oriente", l'intervista di Arturo Zampaglione a Daniel Pipes.
Daniel Pipes
È una «vera svolta». Un ribaltamento delle posizioni «destinato a incidere in modo significativo sugli equilibri militari e geopolitici in Medio Oriente»: Daniel Pipes, presidente del Middle East Forum nonché uno dei maggiori esperti delle dinamiche mediorientali, non usa mezzi termini per definire la sterzata di Recep Tayyip Erdogan. Il presidente turco, infatti, che si era fin qui rifiutato di collaborare all’offensiva internazionale contro lo Stato Islamico, suscitando irritazione a Washington e in altre capitali, ha dato ora il permesso all’Air Force americana di usare le basi di Incirlik e Diyarbakir per i raid contro l’Is e ha ordinato alle sue stesse forze armate di colpire le postazioni del Califfato. Che effetto avrà tutto questo nella guerra contro il Califfato, e in particolare nella imminente offensiva irachena, sostenuta dal Pentagono, per riprendere il controllo della città di Ramadi?
Recep Tayyip Erdogan
Pipes, come spiega il cambiamento di rotta di Erdogan? «A far precipitare la decisione del presidente turco è stato l’attentato di Suruc, una città alla frontiera con la Siria, dove quattro giorni fa un kamikaze legato all’Is ha ucciso 32 persone. Finora Ankara era stata di fatto uno sponsor del Califfato: attraverso la Turchia l’Is riceveva armi e medicine, e riusciva al tempo stesso a esportare il suo petrolio. Erdogan ne traeva un duplice vantaggio perché i jihadisti combattevano contro i suoi due peggiori nemici: da un lato i curdi, dall’altro il governo di Assad».
Cos’è cambiato dopo la bomba di Suruc? «Erdogan ha capito i rischi legati all’estremismo incontrollabile dell’Is, in una situazione in cui l’opinione pubblica turca è sempre più allarmata dai milioni di rifugiati, dagli effetti economici della guerra e dalla prospettiva di altri attentati. Di qui la svolta: che avrà tante conseguenze, a cominciare dall’ulteriore isolamento politico del Califfato. L’Is non ha più simpatizzanti in Giordania, dopo aver bruciato vivo il pilota di Amman che aveva fatto prigioniero. Ed è circondata da nemici: forse non se ne rende conto, tant’è vero che aveva persino minacciato di conquistare Istanbul. Tutto questo è un segno — penso — del suo prossimo tracollo».
Quali saranno le implicazioni militari della svolta? «Per il Pentagono sarà importantissimo usare a fini militari le basi in territorio turco: non dovrà più far volare i suoi caccia e i suoi droni dal Golfo, risparmiando così tempo e carburante, e potendo colpire in tempi ravvi- cinati. Tutto questo proprio mentre l’Iraq si prepara a riprendere Ramadi: un obiettivo importante per riportare tutta la provincia di Anbar, con le sue dighe e risorse idriche, sotto il controllo di Bagdad».
In quell’area si faranno presto sentire anche gli effetti dell’accordo sul nucleare con Teheran. «Sì, è un accordo che definisco catastrofico, anche se temo che ormai non si possa fare più nulla perché non entri in vigore. Uno dei risultati sarà che l’Iran riceverà un mare di petrodollari con cui potrà finanziare gruppi come Hezbollah, o dotarsi di missili e carri armati, o sostenere i suoi amici nell’area, facendo scattare una corsa agli armamenti in tutto il Medio Oriente».
Oltre alla svolta di Erdogan e all’intesa nucleare, quali altre novità vede nella regione? «Emerge sempre più l’incapacità delle varie componenti dell’islamismo militante di far fronte comune e lavorare insieme. Le fratture si vedono ovunque, dall’Egitto alla stessa Turchia: dove mi sembra che Erdogan sia pronto a imboccare una strada “alla Chavez”, restringendo cioè tutti gli spazi di democrazia e riducendo il ruolo del Parlamento, per costruire un potere autocratico».
Ritiene ancora possibile un futuro di pace per la Siria? «Sì, ma temo che per la Siria l’unica possibilità rimasta sia una divisione in tre: al centro del paese uno stato sciita; da una parte e dall’altra uno stato sunnita; e a Nord e a Est uno stato curdo. Dobbiamo infatti riconoscere che le divisioni del 1916 non hanno funzionato e che, sia in Siria e in Iraq, è meglio tornare a entità più omogenee»
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