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Il Foglio Rassegna Stampa
25.07.2015 Quando Mosca era pro-Israele. Ma lo Stato ebraico non diventò un Paese satellite dell'Urss
Analisi di Antonio Donno

Testata: Il Foglio
Data: 25 luglio 2015
Pagina: 3
Autore: Antonio Donno
Titolo: «Soviet pro David»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 25/07/2015, a pag. III, con il titolo "Soviet pro David", l'analisi di Antonio Donno.

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Josif Stalin con Harry Truman

Il 29 novembre 1947, la risoluzione n. 181 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che prevedeva la spartizione della Palestina in due stati, uno ebraico, l’altro arabo-palestinese, fu approvata a maggioranza, con il voto favorevole sia degli Stati Uniti sia dell’Unione sovietica. L’Unione sovietica s’intrufolò nel groviglio palestinese in un momento in cui gli Stati Uniti avevano perso la bussola dell’intera questione.

Che cos’era successo? Il governo americano, semplicemente, non era mai stato unito nel decidere di favorire la nascita di uno stato ebraico in Palestina. Anzi, la battaglia nel suo seno era stata accanita. Si deve ripercorrere brevemente questa vicenda politica americana per comprendere l’uso che ne fece opportunisticamente l’Unione sovietica nel momento più delicato dell’incertezza americana. L’azione sovietica fu così intensa e decisa, per quanto di breve durata, che si può concludere che Israele nacque più per l’intervento politico di Mosca che di Washington. Un’apparente assurdità nel clima della Guerra fredda.

Quando, il 31 agosto 1947, una speciale commissione delle Nazioni Unite, nel suo documento finale votato a maggioranza, raccomandò la spartizione, cioè la nascita di due stati, Molotov, ministro degli Esteri sovietico, scrisse immediatamente a Vyshinskij, viceministro dello stesso Molotov, in questi termini perentori: “La creazione di uno stato ebraico indipendente si concilia bene con le nostre posizioni. (…) Tu devi sostenere il punto di vista maggioritario, che corrisponde alle nostre posizioni di base sulla questione”.

Era un’indicazione chiarissima, inderogabile, ma si spiegava anche con lo stallo dell’iniziativa americana, di cui il Cremlino era a conoscenza. Eppure, Mosca era in difficoltà nel medio oriente in quegli anni. L’iniziativa americana con la dottrina Truman, intesa anche a sostituire la Gran Bretagna nel vecchio ruolo di potenza regolatrice dei complessi affari mediorientali, e la sconfitta subita da Mosca nel suo tentativo di impadronirsi del controllo degli Stretti turchi lasciavano presagire che il medio oriente sarebbe stato un affare americano e un punto di debolezza nella strategia globale sovietica. Ma la questione della Palestina sembrava ribaltare le posizioni in campo, come se fosse un problema a sé, separato dalla più vasta visione della situazione della regione.

Come si vedrà, erano gli Stati Uniti in difficoltà, mentre l’Unione sovietica guadagnava un certo vantaggio di fronte al problema dei problemi: la nascita di uno stato ebraico in Palestina. Infatti, la risposta di Vyshinskij a Molotov fu la seguente: “Sebbene gli arabi siano delusi dalla nostra posizione, nella sessione del Comitato si sono scagliati soprattutto contro gli americani”. Perché, proprio su tale questione, gli americani erano in difficoltà? Da tempo, dopo la successione di Truman a Roosevelt, il dipartimento di Stato si era mostrato contrario alla risoluzione della questione sionista, in questo proseguendo nella politica del vecchio presidente che nei confronti del sionismo aveva sempre avuto un atteggiamento più che ambiguo. Marshall, il suo vice Lovett e il resto del dipartimento erano dell’avviso che sostenere il progetto sionista avrebbe significato consegnare il mondo arabo all’Unione sovietica. Viceversa, Truman e lo staff della Casa Bianca erano completamente dalla parte sionista. Lo scontro era inevitabile.

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Vjaceslav Molotov

Il dipartimento di Stato, Marshall in prima fila, che considerava Truman un piccolo uomo del sud, non paragonabile al grande Roosevelt, aveva molte frecce al suo arco, soprattutto il sostegno del Foreign Office britannico. Mosca, che conosceva le difficoltà di Truman e della Casa Bianca sul problema, decise di entrare in ballo nella questione della Palestina. A quei tempi, era diffuso un violento antisemitismo in Unione sovietica, legato al sospetto che gli ebrei sionisti del paese fossero la longa manus dell’Occidente. Così, nonostante che la concezione internazionalista comunista negasse l’esistenza di nazionalismi settari in seno alla patria dei lavoratori, Stalin decise di lasciar partire gli ebrei sovietici verso la Palestina. Lo scopo era di creare lì una comunità ebraica sempre più numerosa, ostile alla Gran Bretagna e intenzionata a sbattere fuori Londra dalla Palestina, il che avrebbe giovato grandemente alle mire sovietiche nella regione. In sostanza, per quanto tale politica avrebbe condotto gli arabi a staccarsi dall’Unione sovietica (a quel tempo, l’analisi comunista condannava i regimi arabi, considerati feudali e sfruttatori), Stalin corse questo rischio, pur di porre un piede nel medio oriente, dopo gli smacchi precedenti subiti da parte degli occidentali.

Era una politica piena di contraddizioni sul piano ideologico, ma potenzialmente utile nelle dinamiche della Guerra fredda nella regione. Stalin vide nella comunità sionista in Palestina, rafforzata dall’immigrazione degli ebrei sovietici, un alleato nell’impedire agli inglesi di creare un’alleanza araba contigua alla periferia meridionale dell’Unione sovietica. Viceversa, è pur vero che il sostegno sovietico alla nascita di una patria ebraica in Palestina avrebbe potuto spingere gli arabi a legarsi alla Gran Bretagna, nonostante l’odio verso il colonizzatore britannico, e, in prospettiva, agli Stati Uniti. La politica di Stalin era rischiosa, contraddittoria, ma si tentò di attuarla. E’ che Stalin e i suoi conoscevano poco il sionismo, o meglio lo conoscevano attraverso le lenti deformanti dell’ideologia comunista. Il sionismo era un nazionalismo arretrato, fondato su concezioni religiose esclusive, e per questo contrario all’ideologia universalistica dell’unità dei lavoratori di tutto il mondo, che avrebbero affossato l’odiato sistema economico dello sfruttamento, il capitalismo. Anzi, elemento centrale dell’antisemitismo e dell’antisionismo comunista era l’accusa agli ebrei di aver fondato il capitalismo.

Tutto questo era ripetuto in continuazione nelle giaculatorie comuniste, ma la logica della Guerra fredda richiedeva il massimo del realismo. Così, quando la potenza mandataria sulla Palestina, la Gran Bretagna, decise di lavarsi le mani dell’intera questione e demandarla alle Nazioni Unite, la diplomazia sovietica colse al balzo l’occasione. In un memorandum inviato a Vyshinskij nel marzo del 1947, si leggeva che il forfait di Londra forniva a Mosca “la prima opportunità non solo di esprimere il suo punto di vista, ma anche di giocare un ruolo effettivo nella decisione sul destino della Palestina”. Ma l’ideologia è una brutta bestia. Mentre il governo americano era in una fase di stallo sulle decisioni ultime da prendere in sede Onu, in Unione sovietica i massimi dirigenti, pur comprendendo il favorevole momento politico, tentennavano sul da farsi.

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Andrej Gromyko

Era proprio il ministro degli Esteri Andrej Andreevicˇ Gromyko, in carica dal 1957 al 1985, a farsi portavoce di questa incertezza tra ideologia e realismo; in un primo momento – siamo nei primi mesi del fatidico 1947 – affermò: “L’Unione sovietica non è direttamente interessata al problema della Palestina dal punto di vista dell’emigrazione degli ebrei verso la Palestina, dal momento che so bene che la popolazione ebraica dell’Unione sovietica non mostra alcun interesse a emigrare in Palestina”. Era l’ideologo che parlava: non esisteva un problema ebraico in Unione sovietica, perché essa era la patria dei lavoratori del mondo. Gromyko non poteva così clamorosamente smentire uno dei principali capisaldi dell’ideologia comunista. Nel contempo, però, il forfait britannico, come si è visto, lasciava la Palestina in un appetitoso vacuum politico, in cui Mosca poteva giocare le sue carte. Inoltre, una parte non esigua dei sionisti già stanziati in Palestina era di fede marxista e questo forniva ai sovietici ottime possibilità di penetrazione nel variegato mondo del sionismo. Il realismo politico giocava a scacchi con l’ideologia.

Addirittura, nell’aprile 1947, il dipartimento degli Affari esteri sovietico emanava un memorandum riservato, in cui sosteneva che l’appoggio di Mosca alla nascita di uno stato ebraico in Palestina poteva bene conciliarsi con l’amicizia verso i paesi arabi: “Si deve tener presente che la popolazione del paese (arabi ed ebrei insieme) è sufficientemente matura per ottenere la piena indipendenza, e la creazione di, rispettivamente, uno stato ebraico e uno arabo”. In sostanza, l’inimicizia tra arabi ed ebrei, affermavano i sovietici, era stata artificialmente creata dai britannici per poter manovrare gli uni e gli altri e mantenerli sotto il proprio dominio. La posizione sovietica, in questo modo, scavalcava le incertezze americane e, per di più, creava una concreta speranza nello stesso movimento sionista. Non si deve dimenticare che, qualche anno prima, nel 1943, Ben Gurion aveva consegnato ai sovietici un memorandum estremamente chiaro: “Nulla è più errato dell’impressione di alcuni leader sovietici (…) che il movimento sionista sia antagonistico verso la Russia. Non v’è alcuna ragione che giustifichi tale antagonismo sia nell’ideologia sionista sia nelle politiche sioniste”.

La diplomazia sovietica era consapevole che il medio oriente potesse ancora essere “disponibile” all’Unione sovietica. Fu l’ambasciatore sovietico a Washington, Nikolai Novikov, il 27 settembre 1946, a inviare alla leadership sovietica un “long telegram”, che alcuni hanno accostato per importanza al famoso “long telegram” di Kennan. In breve, Novikov sottolineava con forza che la situazione mediorientale presentava per gli occidentali molte difficoltà di gestione. In particolare, era in corso una disputa tra Gran Bretagna e Stati Uniti su come dividersi il medio oriente. Secondo Novikov, Londra cedeva a Washington la parte settentrionale della regione, ai confini meridionali dell’Unione sovietica, riservandosi il diritto di continuare a gestire il cuore arabo del medio oriente, divisione, però, che la Gran Bretagna non era in grado di sostenere per mancanza di risorse. Il che avrebbe significato, in breve tempo, l’egemonia completa di Washington sul Medio oriente. La conclusione era chiara: l’intrusione degli Stati Uniti nell’intera regione “significherà – scriveva Novikov – il materializzarsi di una nuova minaccia alla sicurezza delle regioni meridionali dell’Unione sovietica”.

Per questo motivo, era indispensabile mettere da parte ogni questione ideologica e impegnarsi a sostenere la nascita di uno stato ebraico, inteso come una sorta di “isola socialista”, protetta da Mosca. Il 14 maggio 1947, di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Gromyko pronunciò un discorso fondamentale, che scosse la diplomazia americana. Gromyko affermò che l’Unione sovietica era a favore di uno stato binazionale; ma “se questo piano si rivelasse impraticabile [e Mosca sapeva bene che era impraticabile, nda], allora sarebbe necessario il secondo piano (…) che prevede la spartizione della Palestina in due singoli stati indipendenti, uno ebraico, l’altro arabo”.

Le parole di Gromyko gettarono nel panico gli inglesi e gli arabi, ma soprattutto gli americani. Il movimento sionista giubilò. Mosca, con quest’abile mossa, scavalcò Washington e, in particolare, sbaragliò le posizioni intransigenti del dipartimento di Stato americano, che si sentì messo all’angolo, umiliato. Truman era fuori di sé, per colpa di Marshall e soci. Come rimediare? Nel dibattito, la diplomazia americana tentò di recuperare credibilità presso i sionisti, ma compì un altro errore marchiano. Marshall, scavalcando Truman, fece proporre a Warren Austin, il rappresentante americano all’Onu, l’adozione di un nuovo mandato fiduciario da attribuire direttamente alle Nazioni Unite. Il movimento sionista esplose di rabbia. Il 16 aprile, Gromyko inflisse un’umiliazione cocente agli americani; rigettò con parole di fuoco il progetto americano e sottolineò con grande vigore come soltanto “la spartizione soddisfacesse le legittime aspirazioni del popolo ebraico che aveva tanto sofferto sotto il regime di Hitler”.

Era il colpo fatale per la diplomazia americana. Il 29 novembre 1947, Truman finalmente riprese in mano la situazione e ordinò ad Austin di votare a favore della spartizione della Palestina. Anche l’Unione sovietica votò a favore, come preannunciato da Gromyko. Ma fu l’azione di Mosca, seppur dettata, com’era ovvio, da interessi politici verso il medio oriente, a scuotere l’imballato Truman e a costringere il dipartimento di Stato americano a una provvisoria ritirata. Il voto favorevole degli americani restituì un po’ di dignità a Washington, ma solo un po’. Da parte loro, i sovietici considerarono la nascita di Israele come un loro successo; a conferma di tutto questo, quando Israele, il giorno stesso dell’indipendenza, fu assalito dagli eserciti arabi, Mosca prontamente inviò, sotto copertura cecoslovacca, ingenti quantitativi di armi allo stato ebraico, che poté, così, vincere la guerra della sopravvivenza.

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