Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 25/07/2015, a pag. 13, con il titolo "Patto di ferro fra Turchia e sauditi, Erdogan scatena la guerra all'Isis", cronaca e analisi di Maurizio Molinari; dal FOGLIO, a pag. 1-4, con il titolo "Perché Erdogan s'è mosso proprio adesso contro lo Stato islamico (e i curdi)", l'analisi di Carlo Panella.
Ecco gli articoli:
Fino a ieri la Turchia ha implicitamente appoggiato lo Stato islamico
LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Patto di ferro fra Turchia e sauditi, Erdogan scatena la guerra all'Isis"
Maurizio Molinari
Recep Tayyp Erdogan ordina alle forze armate della Turchia di colpire lo Stato Islamico (Isis) in Siria imprimendo una svolta tattica alla guerra in corso che punta ad accelerare la caduta del regime di Bashar al Assad. Gli attacchi degli F-16 di Ankara contro almeno tre postazioni di Isis a Hawar al-Nahr, si sommano ai colpi sparati dai tank il giorno prima sui jihadisti a Kilis e all’autorizzazione data al Pentagono - dopo nove mesi di trattative - di adoperare la base di Incirlik per i raid contro il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi.
Il premier Ahmet Davutoglu descrive la svolta, parlando di «attacchi non occasionali» ma dell’«inizio di un processo» che vedrà la Turchia «adoperare il massimo uso della forza contro la minima minaccia alla sicurezza nazionale». «I nostri interventi non si limitano ad un giorno o ad un’area - aggiunge il premier - siamo pronti anche a inviare truppe in Siria se ciò dovesse essere necessario». Per questo gli aerei turchi entrano nei ranghi della coalizione guidata dagli Stati Uniti, rafforzandone la capacità di fuoco ed anche l’efficacia a causa della rete di informatori in Siria.
L’accelerazione
Il casus belli è stato l’attentato di lunedì, che ha visto un jihadista di Isis farsi saltare in aria a Suruc uccidendo 32 curdi facendo temere ad Ankara l’estensione della guerra civile siriana al proprio territorio. Ma la scelta di Erdogan, evidenziata da una mega-retata di attivisti islamici e curdi, non è frutto di una reazione istintiva bensì di un cambiamento strategico che nasce dall’incontro con il nuovo re saudita Salman, a Riad in marzo. Salman spiegò a Erdogan che il suo approccio alla regione era diverso dal predecessore Abdallah. L’arabista dell’Oklahoma University Juan Cole riassume così quella conversazione: «Salman disse che la priorità era unire i sunniti contro la minaccia dell’Iran e superare le divisioni sui Fratelli Musulmani» che fino a quel momento avevano visto Turchia e Qatar duellare con l’Egitto di Abdel Fatah al Sisi, ritenendo illegittimo il rovesciamento di Mohammed Morsi nel 2013.
Da allora Salman ha dedicato risorse, politiche e militari, a ricompattare i sunniti: prima la riconciliazione con il Qatar, poi la mediazione Erdogan con l’egiziano Al Sisi, quindi le consultazioni con Ankara sulle operazioni militari in Yemen contro gli houthi sciiti sostenuti da Teheran e infine, nei giorni scorsi, l’udienza a Khaled Meshaal, leader di Hamas all’estero, considerato un «terrorista» da re Abdallah. «Con Salman è cambiato tutto - riassume un diplomatico occidentale al Cairo - ha fretta di rimarginare le ferite sunnite per fronteggiare l’Iran».
L’accordo di Vienna sul nucleare di Teheran ha convinto Salman che bisognava accelerare la formazione del fronte sunnita lì dove la sfida con gli ayatollah sciiti è più aspra: in Siria. La creazione, in aprile, dell’«Esercito della Conquista» grazie al patto fra milizie pro-turche e pro-saudite ha cambiato la situazione sul terreno, portando alla conquista della provincia di Idlib e al ridimensionamento di Al Nusra, entrata nell’alleanza. Ma Salman vuole accelerare la caduta di Assad, insediando a Damasco un leader sunnita che spezzi quella che il re giordano Abdallah definisce la «Mezzaluna sciita»: la continuità di territori governati da alleati di Teheran, dall’Iraq al Libano. Per riuscirci serve un impegno militare turco in Siria e gli attacchi a Isis lasciano intendere che Erdogan sta seguendo il piano di Salman.
Armata sunnita
Il leader turco vuole a tutti i costi la caduta del «Leone di Damasco» e negli ultimi 12 mesi si è spinto fino a tollerare il rafforzamento del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, considerandolo uno strumento efficace contro Assad. Ma il patto con Riad trasforma Isis in un ostacolo sulla strada di Damasco. La somma fra l’esercito turco - 700 mila uomini con le più moderne armi Nato - e i fondi sauditi crea la possibilità di trasformare l’«Esercito di Conquista» in un’armata sunnita, che include gruppi islamici anti-Isis come Ahrar al-Sham. Per raggiungere in fretta Damasco. Resta tuttavia da vedere quale sarà la contromossa di Teheran, che dispone di milizie sciite ben addestrate in Siria e ha appena elargito ad Assad un credito di un miliardo di dollari per le spese di guerra nel prossimo anno.
IL FOGLIO - Carlo Panella: "Perché Erdogan s'è mosso proprio adesso contro lo Stato islamico (e i curdi)"
Carlo Panella
Perché lo Stato islamico ha deciso di attaccare frontalmente la Turchia provocando una prevedibile e durissima reazione? La domanda – per ora senza risposta – si pone con forza alla luce della decisione del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, di avviare una campagna aerea e di bombardamenti da terra contro lo Stato islamico (e contro postazioni del Pkk curdo) in territorio siriano, di fare arrestare da cinquemila poliziotti quasi trecento membri “in sonno” dello Stato islamico (e del Pkk) in 16 province turche – anche a Istanbul – e di concedere all’America l’autorizzazione a usare la base aerea di Incirlik in territorio turco per bombardare le postazioni del gruppo di al Baghdadi in Siria.
Come è noto, i bombardamenti aerei hanno poca efficacia nel contrastare lo Stato islamico che, da quando sono iniziati nell’estate del 2014, è comunque riuscito ad aumentare del 30 per cento il territorio controllato. Ma resta il dato politico di svolta. Dopo due anni di posizione tanto ambigua da meritarsi l’accusa interna e internazionale di aperta complicità, Erdogan ha deciso due mosse decisive: l’attacco allo Stato islamico e l’inizio dell’intervento militare turco su suolo siriano. Un intervento che molti analisti (e l’opposizione turca) ritengono possa presto essere accompagnato da una operazione di terra e che potrebbe facilmente essere diretto non solo contro le postazioni dello Stato islamico e del Pkk, ma anche contro quelle del presidente siriano Bashar el Assad.
L’esitazione della Turchia alle richieste della coalizione internazionale è sempre stata motivata da Erdogan col fatto che tanto andava colpito il movimento jihadista quanto andava abbattuto il regime baathista siriano, da lui considerato – e non a torto – causa prima dell’espansione del Califfato di Abu Bakr al Baghdadi. Oggi la ragione contingente della svolta turca e dell’abbandono di questa pregiudiziale è tutta nei sanguinosi attacchi subiti dalla Turchia negli ultimi giorni: lunedì l’attentato che ha provocato 32 vittime a Suruç tra i giovani curdi radunati per andare ad aiutare la ricostruzione di Kobane, in Siria; mercoledì l’uccisione, rivendicata dal Pkk, di due poliziotti accusati di complicità con lo Stato islamico a Ceylanpinar; giovedì un poliziotto ucciso (senza rivendicazione) a Diyarbakir, “capitale” del Kurdistan turco e infine, sempre giovedì, un sottufficiale ucciso e un soldato ferito da colpi provenienti dalla Siria a cento chilometri da Suruç, nella regione di Kilis.
Nel frattempo la Turchia non ha ancora un nuovo governo dopo le elezioni di giugno, ma il premier incaricato, Ahmet Davutoglu, fatica a formare una indispensabile coalizione e si profila a breve la possibilità di nuove elezioni – è un elemento da non sottovalutare, perché Erdogan ha tutto l’interesse a eccitare un clima di guerra per continuare a dominare il quadro politico interno. Forse un domani si troverà la risposta alle ragioni che hanno spinto lo Stato islamico a provocare così sanguinariamente (se è vero che l’attentato di Suruç è opera sua) una reazione turca. Ma già da oggi si comprendono le mire del Pkk, che riprende la sua attività terroristica contro Ankara, nel momento in cui il risultato elettorale del partito curdo Hdp ha invece consolidato la possibilità di sviluppare una road map per la chiusura della guerra curdo-turca (40 mila morti), voluta da Erdogan e concordata nel carcere di Imrali nel 2013 con Abdullah Oçalan.
Questa pacificazione è contestata dal ramo militare del Pkk che fa capo a Fehman Huseyin. Ma è ancora più contestata da Salih Muslim, leader del curdo Pyd siriano, che dopo la riconquista di Kobane e la conquista di Tell Abiad ha proclamato la “provincia autonoma curdo-siriana del Rojava”. Dunque oggi i curdi siriani del Pyd rafforzano la componente curda contraria alla pacificazione con la Turchia. Ecco così la guerra turca su due fronti: Stato islamico e Pkk-Pyd.
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