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E’ questa la terra promessa? “Sono partito da Bagdad all’età di 12 anni lasciando una casa nella quale c’erano sempre giornali egiziani. Da allora sono sempre stato legato alla cultura araba. Sento le mie storie in arabo e poi le traduco”. Sono parole di Eli Amir, scrittore israeliano nato a Bagdad nel 1937 ed emigrato con la famiglia in Israele nel 1950. Consigliere del primo ministro israeliano e responsabile dell’Agenzia Ebraica per l’immigrazione giovanile è un profondo conoscitore della cultura e della lingua araba. La sua storia è simile a quella di Sami Michael (voce intensa del panorama letterario israeliano, i cui romanzi sono pubblicati in Italia da Giuntina) e a quella di molti altri ebrei cacciati sia dall’Iraq, dove vivevano da “settanta generazioni”, sia da tutti i paesi arabi dopo la nascita dello Stato d’Israele. Nella figura di Nuri Elias Nasseh, protagonista del primo romanzo di Eli Amir, (“Jasmine” - Einaudi, 2008), trovano ampia eco la sua esperienza di nuovo immigrato nel kibbutz Mishmar HaEmek e il ruolo di consigliere per gli affari arabi. Una prova narrativa originale che mette a confronto, all’indomani della guerra dei Sei Giorni, una realtà araba eterogenea che fa fatica ad affrontare la sconfitta e un mondo israeliano spaccato sul futuro ma che si sente forte dopo il trionfo militare. Su tutto emerge con forza la figura di Jasmine, giovane palestinese, con la quale il protagonista avvierà un intreccio amoroso costellato di rifiuti, malintesi, litigi ma anche tenerezze. Il confronto fra culture differenti e la difficoltà di conciliare tradizioni diverse l’una dall’altra è lo sfondo del nuovo romanzo di Amir, pubblicato da Giuntina in questi giorni con il titolo “E’ questa la terra promessa?”. Apparso in Israele nel 1983, “Tarnegol kapparot”, che ha ricevuto premi prestigiosi fra cui il “Prime Minister’s Platinum Prize (2002) e il Jewish Literary Prize (1986), offre un punto di osservazione inedito sull’immigrazione ebraica in Israele negli anni Cinquanta, sulle difficoltà di integrazione e sull’anelito di molti giovani ebrei provenienti dai paesi arabi di essere accettati dai sabra, i nativi israeliani. Con un’impronta autobiografica lo scrittore israeliano racconta la storia di Nuri, un adolescente nato a Bagdad che arriva in Israele con la numerosa famiglia e dopo la difficile convivenza nella ma’abarà, il campo di transito per immigrati, viene mandato nel kibbutz Kiryat-Oranim insieme a un gruppo di giovani iracheni. Nel kibbutz, “l’esperimento sociale più audace e affascinante del ventesimo secolo”, che vuole dare vita a un ebreo nuovo, rivoluzionario, “un pioniere che sarebbe stato sia un agricoltore che un intellettuale” Nuri - proveniente da un ambiente culturale tradizionalista e conservatore - si trova a lottare fra due mondi opposti, a confrontarsi con una fatica fisica sinora mai provata e con un peso emotivo che rischiano di schiacciarlo. Nonostante le difficoltà condivise con gli altri giovani immigrati, Reuven, Mazul, Busaglo, ognuno dei quali affronterà questa esperienza in modo diverso, Nuri aspira ad essere come un sabra e si impegna frequentando il circolo culturale per imparare ad apprezzare la loro musica, si offre volontario per spalare il letame (“In Irak solo gli arabi e i curdi fanno quel tipo di lavoro”) e si innamora della bionda e affascinante Niza, purtroppo respinto. Per Nuri non è facile accettare il cibo dal sapore sconosciuto, l’assenza di riti religiosi, l’atteggiamento disinvolto delle ragazze, l’ideologia sionista la cui essenza ancora gli sfugge; eppure, nonostante la nostalgia per il suo paese ogni tanto si insinui nei pensieri, è consapevole che per non rimanere emarginato deve adattarsi alla nuova realtà d’Israele e far propri i valori dei “locali”. Accompagnano e aiutano Nuri nel percorso di integrazione una miriade di personaggi, ritratti con maestria e sensibilità dall’autore: Dolek, che viene dalla Polonia dove ha perso la famiglia nella shoah, è fiero di aver contribuito alla costruzione del nuovo paese e persino il faticoso lavoro nella stalla per lui è motivo di soddisfazione; Sonia, giovane istruttrice, pronta a dimostrare che la rivoluzione sionista è anche la rivoluzione della donna ebrea; Etka, dal carattere burbero che si occupa di distribuire il vestiario ai nuovi immigrati e vuole essere chiamata “chaverà”, è una lavoratrice devota che fa del suo meglio per venire incontro alle esigenze di tutti. Con il trascorrere del tempo Nuri perde il legame intimo che lo univa alla famiglia d’origine e insieme all’inevitabile processo di maturazione assistiamo ad una frattura irreversibile fra il mondo tradizionale dei suoi genitori - permeato da regole rigide e indiscutibili - e la nuova realtà del kibbutz. Con uno stile narrativo elegante, semplice e coinvolgente Eli Amir, sostenitore dell’uguaglianza sociale di tutte le minoranze, offre una prova narrativa di grande attualità, oltre che un’opportunità imperdibile per addentrarci nel cuore dei giovani immigrati e comprendere l’angoscia dell’alienazione e dello sradicamento dalla propria cultura sperimentata da giovani che lasciano il proprio Paese per un nuovo mondo. Un libro che si legge d’un fiato e restituisce l’impronta di una memoria da conservare.
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