Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 21/07/2015, a pag. 2-3, con i titoli "Blitz jihadista o estorsione, tutte le piste sono aperte", "L'Italia vuole tenere la porta aperta a Tripoli: 'Anche le milizie islamiche al negoziato' ", "Mellitah, la cassaforte dell'energia assediata dalla guerra civile", tre servizi di Maurizio Molinari.
Ecco gli articoli:
Maurizio Molinari
"Blitz jihadista o estorsione, tutte le piste sono aperte"
Mellitah, nodo strategico per l'energia
Rapimento tribale a fin di soldi, blitz jihadista contro l’Italia, faida fra fazioni islamiche o mercato degli esseri umani fra le tribù del deserto: a rendere possibile ogni pista sul rapimento dei quattro tecnici italiani in Libia è il luogo dove è avvenuto, ovvero l’impianto di Mellitah, nel bel mezzo di un’area senza governo nè controllo che si estende dal Golfo della Sirte al Sud della Tunisia, fino al Sahara algerino.
Il confine senza regole
La decisione del governo di Tunisi di reagire alla recente strage di turisti a Sousse con la costruzione di un muro di circa 150 km al confine con la Libia - che ne misura in tutto 478 - nasce dalle indagini che hanno scoperto l’esistenza a Sabratha della base dello Stato Islamico (Isis) dove il killer Seifeddine Rezgui si era addestrato in singolare coincidenza con quanto fatto dagli attentatori del museo Bardo di Tunisi. Sabratha è a pochi chilometri da Mellitah, lungo la strada costiera che da Tripoli raggiunge Zuara e il confine tunisino divenuta un’area di incontro fra jihadisti dei due Paesi. Per Badra Gaaloul, presidente del Centro internazionale di studi strategici di Tunisi «c’è la reale possibilità che lo Stato Islamico nel Maghreb nasca fra Libia occidentale e Tunisia del Sud» perché «il punto debole è il triangolo meridionale tunisino da Tataouine a Remada» dove nell’ultima settimana sono scomparse nel nulla 33 persone che hanno superato la porosa frontiera del Sahara per andare a unirsi alle cellule di Isis in Libia.
Franco S. è un contractor italiano, 60 anni di età, che dal 1993 guida un’agenzia di sicurezza privata impegnata a difendere impianti industriali in Algeria, Libia e Tunisia. Ecco come descrive la situazione: «A Sirte c’è Isis, a Tripoli le milizie islamiche di Fajr Libia, nel Sud della Tunisia i Fratelli musulmani e i militanti di Ennahda, nel sud dell’Algeria gruppi qaedisti collegati al Mali, è una fascia di territorio dove prevalgono gruppi jihadisti, ora rivali ora alleati, che sfuggono a qualsiasi controllo». È un’area di instabilità tale da alimentare Isis in Tunisia, essere una retrovia economica per Tripoli e far passare i volontari tunisini che vanno a Sirte per unirsi al Califfo. «I villaggi del Sud tunisino con gli striscioni inneggiati alle battaglie di Maometto descritte nel Corano suggeriscono che aria tira», aggiunge il contractor.
Network concorrenti
«Ci sono almeno due network jihadisti, paralleli e concorrenti, che vanno dal Sud della Tunisia alla Libia dell’Ovest - riassume Aaron Zelin, arabista del “Washington Institute” - uno è Ansar el-Sharia e l’altro è Isis». Mellitah è protetta sulla carta dalle milizie fedeli a «Fajr Libia», gli islamici di Tripoli, e non si può escludere che il rapimento nasca da una sfida per il controllo dell’impianto - o sulla suddivisione dei proventi - da parte di clan locali fedeli ai rivali di «Jeish al Qabali», come suggerisce «Al Jazeera». D’altra parte il luogo del rapimento non è lontano da dove il britannico Mark De Salis e una donna neozelandese sono stati trovati morti in gennaio con un’esecuzione tribale forse dopo una trattativa fallita.
E ancora: impossibile escludere che la base di Isis a Sabratha - non lontano dalle rovine romane - abbia a che vedere con il sequestro proprio perché da qui sono venuti i killer degli attacchi agli stranieri in Tunisia. Senza contare l’ipotesi di un collegamento con il recente attentato al Consolato d’Italia al Cairo seguendo la pista dell’opposizione degli islamici di Tripoli al sostegno del nostro Paese per la mediazione Onu tesa a superare la guerra civile. A suggerire che la genesi del rapimento è nel groviglio di potere dei gruppi islamici c’è la velocità con cui il governo di Tobruk - avversario di Tripoli - preannuncia «un’inchiesta» affermando che «tali azioni sono contro la nostra etica».
"L'Italia vuole tenere la porta aperta a Tripoli: 'Anche le milizie islamiche al negoziato' "
«Teniamo la porta aperta a Tripoli»: è questo il messaggio con cui l’Italia aspetta Bernardino Leon, l’inviato Onu sulla Libia, in arrivo oggi a Roma per esaminare le prossime tappe di una «road map» ancora irta di ostacoli. La mediazione del diplomatico spagnolo, con i tre round di incontri in Marocco fra le fazioni in lotta dal 2011, ha portato ad un «piano di conciliazione» che è stato accettato da Tobruk - dove siede il governo legittimo - e da tribù e clan di Misurata, ma le milizie islamiche di Tripoli hanno espresso parere contrario e l’interrogativo è cosa fare.
Le carte sul tavolo
Fra le ipotesi valutate da Leon, e discusse anche ieri a Bruxelles dai partner Ue, c’è l’adozione di sanzioni ad personam contro i «falchi» di «Fajr Libia» ovvero i leader islamici che hanno spinto il Consiglio locale a bocciare il piano dell’Onu, che aveva ricevuto in precedenza un’accoglienza non negativa da altri leader di Tripoli. Ma è uno scenario che non ha trovato sostegno a Bruxelles e non convince troppo in particolare l’Italia.
Fra Misurata e Tobruk
Da qui l’intenzione, come si apprende in ambienti diplomatici, di spingere Bernardino Leon a «tenere la porta aperta a Tripoli» pur mandando avanti il processo avallato da Tobruk e Misurata. È un passaggio non facile, ma l’Italia ritiene sia importante fare di tutto per non escludere Tripoli, anche se al prezzo di nuove maratone diplomatiche da parte di Leon, il cui incarico è in scadenza a settembre.
Il fronte sunnita
D’altra parte, a suggerire la possibilità di nuovi tentativi è lo scenario che sta maturando nello schieramento dei Paesi sunniti: finora Egitto ed Emirati Arabi Uniti hanno sostenuto a spada tratta Tobruk mentre sul fronte opposto Turchia e Qatar hanno spalleggiato Tripoli, con l’Algeria spesso in bilico, ma il re saudita Salman sta spingendo con forza per un superamento di tali divisioni. Prima ha accolto il leader turco Recep Tayyp Erdogan a Riad, poi ha suggellato la riconciliazione con il Qatar e quindi ha ricevuto al palazzo reale il leader di Hamas Khaled Mashal con un evidente gesto di apertura verso il fronte dei Fratelli Musulmani. «Salman vuole la riconciliazione fra sunniti e soprattutto fra Egitto e Turchia - spiega un veterano della diplomazia araba dal Cairo - per chiudere le crisi interne agli arabi e fare fronte comune contro l’Iran degli ayatollah che ora avranno anche il nucleare».
È uno scenario che può portare Turchia e Qatar a svolgere, anche in Libia, un ruolo diverso dal recente passato. Dando più spazio alla mediazione Onu e aumentando le possibilità di riuscita di un tentativo ancora in bilico. Da qui la determinazione italiana ad evitare scontri aperti con Tripoli come avverrebbe nel caso di sanzioni contro i suoi «falchi».
"Mellitah, la cassaforte dell'energia assediata dalla guerra civile"
L'impianto Mellitah Oil and Gas
L’impianto di Mellitah somma la più importante azienda energetica libica e il punto di partenza del gasdotto «Greenstream» che attraversa il Mediterraneo portando a Gela, in Sicilia, fino ad un massimo di 11 miliardi di metri cubi di gas naturale annuo, decisi per andare incontro al fabbisogno nazionale.
Polmone energetico
Si tratta di un polmone energetico del Maghreb di importanza strategica per l’Italia come anche per il mercato interno libico. Operativa dal 2004, si basa sull’accordo fra Eni North Africa e National Oil Corporation - la compagnia libica - che prevede la creazione della «Mellitah Oil & Gas» per la produzione quotidiana dell’equivalente di 600 mila barili di greggio, gas naturale e gas condensato - propano, butano e nafta - oltre a 450 tonnellate di solfuro.
La guerra civile
Si tratta di quantità che, a causa della guerra civile iniziata nel 2011 con il rovesciamento del regime di Gheddafi, sono drasticamente diminuite soprattutto per quanto riguarda il greggio. La «Mellitah Oil & Gas» gestisce anche diversi campi off-shore, tre piattaforme e una cisterna galleggiante oltre ai 516 km di gasdotto sottomarino che collegano il complesso industriale sulle coste libiche con la Sicilia e dunque la rete di distribuzione europea. Un progetto costato 6,6 miliardi di dollari e realizzato da Agip e Noc. Come la stessa «Mellitah Oil & Gas» spiega, nella sua presentazione online, i prodotti energetici «coprono in gran parte il consumo locale di gas naturale che alimenta le centrali elettriche»: senza questo impianto non si accenderebbero gran parte delle lampadine libiche.
Il gas che attraverso «Greenstream» arriva in Italia proviene dai giacimenti di Wafa, a Sud di Ghadames, e dalla piattaforma di Sabrata nel Mediterraneo. L’impianto a terra include strutture logistiche per le comunicazioni, i macchinari pesanti, il deposito di container, gli alloggi del personale e le operazioni doganali.
Rischi troppo alti
Si tratta di una mini-città da dove l’Eni ha ritirato il personale italiano a seguito della mancanza di condizioni minime di sicurezza e ora viene protetta da personale libico scelto dalla National Oil Company. Proprio la Noc ha continuato negli ultimi mesi ad assegnare contratti per la gestione degli impianti, come nel caso della commessa da 330 milioni di dollari a «OneSubsea» per i lavori al campo di Bajr Essalam. Anche i quattro tecnici italiani rapiti lavoravano per un’azienda, la Bonatti, che aveva vinto un contratto da Noc.
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