Riprendiamo dalla REPUBBLICA do oggi, 19/07/2015, a pag. 1-15, con il titolo "Io, musulmana dissidente in cerca di alleati contro la jihad", l'analisi di Ayaan Hirsi Ali.
Ayaan Hirsi Ali
Abbiamo un problema, un inferno che viene dall’alto dei cieli. Si tratta dell’Islam detto radicale, o fondamentalista, di cui il sedicente Stato Islamico non è che l’ultimo esempio. Ma nessuno lo capisce davvero. Per anni i protagonisti della politica statunitense non hanno saputo cogliere l’entità della minaccia rappresentata dall’Islam militante, né organizzare una controffensiva sul campo di battaglia più importante: quello delle idee. Nel settembre dello scorso anno il presidente americano Barack Obama dichiarava che lo Stato Islamico «non è islamico» e all’Assemblea Onu sosteneva che «l’Islam insegna la pace». A novembre Obama ha condannato la decapitazione dell’americano Peter Kassig come «malvagità» rifiutando l’uso del termine «Islam radicale» per definire l’ideologia degli assassini. Alla Casa Bianca quell’espressione ormai non si sente più. Il termine approvato è «estremismo violento».
La copertina del suo più recente libro
La scelta di non chiamare la violenza commessa nel nome dell’Islam con il vero nome, jihad, è una strana decisione, un po’ come se ai tempi della guerra fredda i leader occidentali avessero definito il comunismo un’ideologia pacifica. È ora di lasciar perdere gli eufemismi e i giri di parole. Il concetto stesso di “estremismo violento” implica che gli Usa non hanno nulla contro gli estremisti, purché non ricorrano alla violenza. Ma questo ragionamento non coglie il rapporto tra chi predica la jihad e chi poi la realizza. Sono due le tesi in base alle quali i protagonisti della politica americana evitano di pronunciarsi sull’Islam, una di carattere strategico, l’altra di politica interna. La prima sostiene che non si devono mettere a rischio gli interessi americani diffamando l’Islam. La seconda impone agli Usa di non alterare il delicato equilibrio esistente nelle democrazie occidentali tra minoranze musulmane e maggioranze non musulmane offendendo i musulmani o incoraggiando l’islamofobia.
Ma gli interessi Usa in Medio Oriente sono sempre più a rischio e il pericolo dell’Islam militante è assai più grave della minaccia posta dall’islamofobia. Gli alleati mediorientali degli Usa si riferiscono all’estremismo islamico come a un “cancro” e auspicano una “rivoluzione” nel pensiero religioso islamico. Quanto al fronte interno, sarebbero 3.400 gli occidentali, tra cui molti giovani, che hanno deciso di lasciarsi alle spalle le libertà e la prosperità occidentali per unirsi allo Stato Islamico. È ora di cambiare rotta. Il primo passo è ammettere che il mondo islamico è agli albori di una riforma religiosa. Bisogna distinguere tre diversi gruppi di musulmani: il primo è costituito da quelli che considerano dovere religioso imporre con la forza la Sharia. Il secondo gruppo — la maggioranza — raccoglie i musulmani fedeli al credo essenziale e praticanti, ma non propensi alla violenza. Il terzo è il gruppo dei musulmani dissidenti, credenti riformisti ed esponenti religiosi consapevoli della necessità di cambiare il proprio credo per evitare che i fedeli siano condannati alla violenza politica. La riforma dell’Islam incontra due ostacoli fondamentali. I suoi fautori, anche moderati, subiscono minacce di morte come eretici o apostati.
Il secondo ostacolo è costituito dalla mancata volontà della maggioranza dei musulmani, altrimenti pacifici e rispettosi della legalità, di riconoscere o ripudiare gli elementi dei loro testi religiosi che legittimano l’intolleranza e la violenza. In Medio Oriente oggi sono attivi tre fattori assimilabili ai vettori della riforma religiosa nell’Europa del XVI secolo. La nuova tecnologia dell’informazione ha creato una rete di comunicazione senza precedenti in tutto il mondo musulmano. In secondo luogo, nelle maggiori città è emersa una categoria favorevole alla riforma, persone deluse dal governo islamista o attratte dalle prassi occidentali. Terzo, in stati di grande importanza regionale come l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti sta emergendo una categoria politica pro-riforma religiosa. Il numero di cittadini comuni che auspicano la riforma è già in crescita, sia nel mondo musulmano che in Occidente.
Non è una pretesa eccessiva chiedere a presidenti e segretari di stato americani di appoggiare la riforma religiosa islamica e di inserire la questione dei musulmani dissidenti e riformisti nei negoziati con alleati e nemici. Al contempo l’amministrazione Usa deve smettere di coprire in pubblico le pecche dell’Islam non riformato. La mia proposta ha un precedente: ai tempi della guerra fredda gli Usa incoraggiarono e finanziarono gli intellettuali anticomunisti, per contrastare l’influenza dei marxisti e della sinistra attraverso la denuncia dei mali del sistema sovietico. Oggi si dice che la guerra fredda è stata vinta con mezzi economici, ma è sbagliato. Chi viveva oltre la Cortina di ferro subiva il fascino degli Usa non tanto grazie al livello di vita superiore in America, ma anche alla libertà individuale e allo stato di diritto di cui gli Usa si facevano paladini. Oggi molti dissidenti sfidano l’Islam non riformato con altrettanto coraggio. Sfidano un’ortodossia che contiene i semi di un’escalation della jihad, ma l’Occidente ignora i riformisti o li snobba.
Sostenere i dissidenti che premono per una riforma dell’Islam non equivale a dichiarare una guerra santa. Significa concentrare gli sforzi per incoraggiare chi si oppone all’applicazione letterale della sharia nei confronti degli apostati e delle donne, o sostiene che nel ventunesimo secolo non c’è spazio per gli appelli alla guerra santa. Immaginate una piattaforma riservata ai musulmani dissidenti che ne diffonde il messaggio attraverso You-Tube, Twitter, Facebook, e Instagram. Immaginate dieci riviste riformiste per ogni numero di Dabiq o di Inspire , le pubblicazioni online dello Stato islamico e di Al Qaeda.
Immaginate che della riforma si parli alla radio e alla televisione in lingua araba, dari, farsi, pashtu, urdu. Immaginate borse e premi per i riformisti più attivi, e finanziamenti per scuole che offrano un’alternativa alle madrasse. Questa strategia offrirebbe inoltre agli Usa l’opportunità di spostare le proprie alleanze verso i musulmani, individui e gruppi, che realmente condividono i valori americani: quelli che lottano per una vera riforma musulmana e che attualmente sono vittime di diffamazione, se non di persecuzione, proprio da parte dei governi sostenuti da Washington.
(The New Yorker - Traduzione di Emilia Benghi)
Per inviare la propria opinione alla Repubblica, telefonare 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante