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Lettera da Gerusalemme, di Angelo Pezzana A destra: Benjamin Netanyahu L’analisi dell’Accordo di Vienna tra Iran e i super poteri occidentali può essere una cartina di tornasole per esaminare la figura centrale della coalizione di governo, il premier Bibi Netanyahu. Con l’eccezione di alcuni editorialisti, Yediot Haaronot, il quotidiano più venduto, e Haaretz, quello più vicino alle posizioni critiche su Israele e in favore delle rivendicazioni palestiniste, non importa quali, hanno attribuito la responsabilità dell’insuccesso israeliano non alla linea obamiana, fatta propria da una UE obbediente, ma all’incapacità di Netanyahu nel difendere gli interessi di Israele. Ai media hanno fatto seguito organizzazioni e Ong che abitualmente svolgono opera di delegittimazione dello Stato ebraico, giustificando la loro azione sotto l’insegna della parola ’pace’, sempre disponibile ad ogni uso. Ma negli ambienti politici e diplomatici della capitale, e non soltanto quelli vicini all’area laburista, anche nello stesso Likud, si registra una forte insofferenza verso Bibi, che non si ferma alla questione Iran, ma parte dalla considerazione che nove anni consecutivi a capo del governo sono troppi per qualsiasi leader, non importa la collocazione.
Insomma, Bibi è da troppo tempo alla ribalta, in Israele questo significa avere occupato gli schermi televisivi e le pagine politiche dei media per troppi anni. In parole povere, gli israeliani sono stufi. Ma quando si chiede quale altro leader potrebbe sostituirlo, domanda che ho posto ai tanti critici con i quali ho discusso, la risposta è pressoché identica: per ora non ce n’è nessuno in vista. Isaac Herzog è troppo lontano dal tipo che quando parla sa farsi ascoltare, è elegante, ma troppo ashkenazita per incarnare la figura del politico decisionista. Yair Lapid è abile, sa come si parla in pubblico, ma la sua altissima ambizione l’ha spinto a correre troppo in fretta, faccia la coda e poi si vedrà. E così via con altri candidati, forse ottimi nel loro campo specifico, ma senza quella speciale qualità che ne fa un capo del governo, al quale ci si può affidare nei momenti difficili.
E dato che in Israele i momenti facili, tranquilli, non sono ancora apparsi all’orizzonte, ecco che alle elezioni continuano ad eleggere chi quel ruolo ha comunque dimostrato di saper svolgere. Come è avvenuto lo scorso marzo, quando Bibi ha di nuovo stravinto, malgrado fosse scesa in campo la macchina elettorale strettamente collegata con la Casa Bianca, che non vedeva l’ora di togliersi dai piedi un amico/alleato che però aveva l’ardire di ragionare con la propria testa e, soprattutto, farlo sapere. Israele, anche nei momenti più drammatici, non ha mai ceduto alla tentazione di ricorrere all’uomo forte, al militare, che, con un colpo di stato, avrebbe sistemato tutto, allontanando i pericoli. Sono sempre state le elezioni democratiche a stabilire chi doveva governare, una lezione che l’Occidente non ricorda volentieri, capovolgerebbe le continue critiche che piovono sullo Stato ebraico. Ma allora, è proprio vero che Netanyahu ha sbagliato nell’affrontare la vicenda nucleare iraniana? Oppure ha combattuto, senza rendersene conto, contro i mulini a vento? Intanto va detto che Bibi è uomo di buone letture, non solo perché è figlio di uno dei più famosi storici israeliani, ma perché uno se ne rende conto quando interviene, anche solo in conferenza stampa. Le citazioni dell’altro giorno di Ze’ev Jabotinsky e Theodor Herzl, non banali ma rivelatrici del loro pensiero meno noto, lo dimostrano. Netanyahu ha detto al mondo intero che la storia degli ebrei ha insegnato che non ci si deve fidare delle promesse, perché alla fine si sono sempre ritrovati abbandonati. Il mondo, così amico e alleato, si sarebbe ricordato di loro a sterminio avvenuto, per celebrarne il ricordo. Nei confronti degli Usa non mai perso occasione per ribadire quanto gli interessi di libertà e democrazia siano comuni, e se alla Casa Bianca c’è un ospite che non ci sente, si è rivolto al Congresso e all’opinione pubblica americana, a chi sennò? Non ha mai alzato la voce, portando invece a sostegno delle proprie posizioni i fatti, quelli sì indiscutibili. Ma i poteri forti – Usa e UE - non li hanno voluti esaminare, troppo impegnati nelle risate sguaiate che tutti abbiamo visto in Tv, dal ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif a Federica Mogherini, felici di avere consegnato il futuro del mondo nelle mani di uno Stato criminale. Che cosa avrebbe dovuto fare di diverso il premier d’Israele? A questa domanda, se si escludono i 'pacifisti' vari che applaudono alla firma dell’Accordo – e ce ne sono, anche se pochi, anche in Israele – nessuno sa dare, e darsi, una risposta convincente. Nove anni sono troppi, ripetono. Ma la linea guida di Netanyahu non è un confine chiuso, al contrario. Tutte le possibilità sono aperte, dal voto del Congresso americano, che potrebbe essere decisivo se una manciata di democratici votasse no a Obama, al cambiamento della politica degli Stati sunniti in Medio Oriente, che hanno già ampiamente dimostrato di temere molto di più la Repubblica Islamica dell’Iran dello Stato di Israele. Saranno anche nove gli anni di governo, ma il bilancio è senza dubbio positivo. Non sarà per questo che gli israeliani, a maggioranza, votano Bibi ?
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