Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 13/07/2015, a pag. 6-7, con i titoli " 'La bomba? Dono di Dio', nel quartiere degli islamisti che sfidano ancora al Sisi" e " 'Italiani, non andate via', ora l'Egitto teme la fuga", due servizi di Maurizio Molinari.
Maurizio Molinari
Egitto: quello che resta dopo un attentato della Fratellanza musulmana
«La bomba al Consolato italiano? È venuta da Dio». Bassam vende cocomeri su Naam Square, la piazza dove i Fratelli musulmani il venerdì danno battaglia contro la polizia. Non mostra dubbi sull’origine dell’attentato. Oltre 2 metri di altezza, 24 anni, jalabyia bianca e sandali, Bassam è scontento perché «da quando Al Sisi è diventato presidente la gente compra meno frutta, gli affari vanno male e i prezzi scendono ogni settimana che passa».
Per far capire cosa intende punta l’indice verso lo spaccio sul marciapiede alle spalle del suo banco: dozzine di persone fanno la fila per ritirare cibo con i buoni pasto comunali. Per 5 pound, l’equivalente di 0,6 dollari, ogni capofamiglia ha diritto di ricevere - una volta al mese - 1 kg di zucchero, 1 kg di riso, 1 kg di pasta e una bottiglia d’olio. «Senza questo cibo la mia famiglia non potrebbe mangiare» confessa George, tassista con moglie e tre figli, in paziente attesa di ritirare ciò che gli spetta.
All’angolo fra Naam Square e Ain Sham Street c’è un tabaccaio ambulante. Le sigarette sono fra i prodotti che più resistono all’impoverimento collettivo e Ibrahim, comprandone due, dà la sua versione dell’attentato alla sede diplomatica italiana: «L’Egitto va a rotoli, il governo è contro il popolo, la gente è disperata, cosa volete che facciano?». Alla richiesta di spiegare perché la rabbia contro il presidente Al Sisi investe l’Italia, Ibrahim, 70 anni, replica così: «Voi italiani dovreste saperlo, è amico vostro, no?».
Strade inespugnabili
Per i Fratelli Musulmani questa Naam Square è una roccaforte. Si sentono a casa perché è una piazza dalle dimensioni ridotte, immersa in un quartiere dove registrano grande popolarità sin dai tempi di Hosni Mubarak, e le stradine sterrate che si diramano ovunque offrono infiniti ripari dai blindati di esercito e polizia. Alcune vie sono talmente piccole e disseminate di ostacoli - carretti, spazzatura, rottami di auto e sedili improvvisati - da renderle quasi inagibili per le vetture. È in questi viottoli che si trovano le moschee dei Fratelli Musulmani. Non si tratta di edifici di culto con cupole e minareti bensì di palazzine occupate dai fedeli-militanti e trasformate in moschee: apponendo striscioni alle finestre e stendendo tappeti all’entrata. Sono le grandi scritte coraniche, in verde e rosso, a far capire che si tratta di moschee non «pubbliche», che nulla hanno a che fare con il governo. Anche perché i guardiani all’entrata, in jalabyia e sandali, non fanno complimenti nel respingere gli estranei.
Omar, 26 anni, vende colorati addobbi di Ramadan a fianco della moschea Fatma Zahara - intitolata alla moglie del profeta Maometto - e parla dei frequentatori quasi con soggezione: «Li vedo pregare ma non li conosco, con loro non c’entro nulla». Tanta ritrosia si spiega con il fatto che proprio da questa stradina, a fine marzo 2014, uscì un torrente di islamisti che si riversò nell’adiacente chiesa copta St. Virgin Mary. Bruciarono le auto all’entrata, i cassonetti dentro il cortile, molti arredi religiosi e la furia devastatrice travolse Mary Sameh George, donna quarantenne, che stava portando medicine per i malati e venne linciata a morte.
Dentro la Chiesa non c’è più traccia di queste violenze, il sacrario è stato riconsacrato, le immagini sacre sovrastano i fedeli e nel cortine i protagonisti sono gruppi di Boy Scouts adolescenti con divisa celeste e bandiera egiziana cucita sul petto. Ma i sorveglianti cristiani - che all’epoca non c’erano - sono molti e ben addestrati. Vegliano sull’entrata come se fosse un confine, bevendo e mangiando durante Ramadan per sottolineare che l’uscio è una linea rossa ben definita con i musulmani. A dieci minuti d’auto, nella chiesa di St George il clima è diverso. Padre Paul, ex ingegnere elettronico di 55 anni, guida un gregge di 10 mila fedeli che riempie la chiesa ad ogni occasione, con canti e preghiere. «Noi cristiani soffriamo da 2015 anni, il primo fu Gesù Cristo, ciò che passiamo ci avvicina a lui», spiega, innalzando un piccolo crocefisso dorato che chiama «la mia bandiera».
«Ordine di uccidere»
Guidare una comunità di copti nel quartiere dei Fratelli Musulmani è una missione da far tremare i polsi e Padre Paul non si tira indietro davanti alla descrizione del nemico: «Dentro la testa di alcuni musulmani, come quelli dell’Isis, avviene qualcosa di terribile, si convincono che sia Dio a ordinargli di uccidere, è diabolico, innaturale, terribile». È un pericolo immanente con cui il prete copto sente di poter convivere, fino al punto di riuscire a batterlo, domarlo: «La preghiera è più forte della morte, non tutti i musulmani sono come questi pazzi, l’Egitto non è la Siria o l’Iraq perché qui c’è una radice comune, millenaria». Come dire, i jihadisti di Ain Sham non rappresentano l’Islam egiziano. È un messaggio che rimbalza davanti ai cancelli dell’ateneo Ain Sham, altro terreno di battaglia fra islamisti e polizia, perché gli studenti che riposano nei giardini - è tempo di Ramadan - parlano di Isis come qualcosa di lontano e distante: «Non ci riguarda».
" 'Italiani, non andate via', ora l'Egitto teme la fuga"
Il terrorismo islamico miete vittime in Egitto
Appello agli italiani a restare, scomunica per chi attacca i diplomatici stranieri e una task force per fare luce sull’attentato di sabato: l’Egitto di Abdel Fattah Al Sisi reagisce all’autobomba al Consolato d’Italia con un’offensiva su più fronti tesa a rassicurare gli stranieri che vi risiedono.
L’appello
Il messaggio agli italiani arriva da Mohammed Shaker, presidente del «Council on Foreign Affairs» del Cairo, che lo affida alla stampa locale: «Spero che l’attentato non abbia conseguenze per la comunità italiana in Egitto e non terrorizzi gli stranieri che risiedono al Cairo perché l’intento di questi attacchi è proprio di far apparire la nazione insicura» innescando la fuga dei residenti di altri Paesi. Per l’Egitto in fase di ricostruzione la presenza degli stranieri è un tassello-chiave e dietro le parole di Shaker c’è la strategia di al Sisi: fare di tutto per evitare che al calo del turismo, innescato dalla rivoluzione del 2011, si aggiunga la fuga di imprenditori e investimenti dall’estero. Si spiega così anche la presa di posizione del Gran Mutfì d’Egitto, Shawki Ibrahim Abdel-Karim Allam, che condanna nei termini più duri l’attacco al Consolato d’Italia e va oltre: «La Sharia proibisce ogni sorta di attentati ed azioni contro ambasciate e diplomatici perché gli stranieri devono sentirsi sicuri nella nostra patria».
La conclusione del Gran Mufti è in sintonia con le parole di Shaker: «I terroristi vogliono la destabilizzazione dell’Egitto, devono essere puniti e bloccati». Da qui la raffica di rassicurazioni agli stranieri e la forte attenzione pubblica per l’odierna visita del ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni. «Dimostra la decisione italiana di battersi al nostro fianco contro il terrorismo» afferma il ministero degli Esteri egiziano, in una nota scritta, tesa a sottolineare come sta avvenendo l’esatto contrario dei desideri jihadisti: gli italiani non solo restano ma rafforzano il legame di solidarietà con il Cairo con una visita che vedrà Gentiloni discutere con l’omologo Sameh Shoukry su «cooperazione, Libia, immigrazione clandestina e lotta al terrorismo».
È in tale cornice che la procura generale ha formato una task force di 5 giudici per seguire le indagini al Consolato d’Italia, affidandone la guida a Zakaria Abd El Aziz, il nuovo procuratore capo che ha preso il posto del predecessore, assassinato due settimane fa in un’attentato al Cairo.
Caccia ai colpevoli
L’entità del team delle indagini è tale da far capire che si vuole identificare e punire in fretta gli attentatori anti-italiani, per ripristinare la credibilità delle misure di sicurezza nel cuore del Paese. Alcuni organi di stampa locali riportano l’ipotesi che l’autobomba potrebbe aver avuto come reale obiettivo Ahmed al-Fuddaly, un avvocato considerato molto vicino ad al Sisi, ma è una tesi che non trova al momento riscontri nell’ambiente degli investigatori. Nella strategia di risposta di al Sisi al primo attentato contro i diplomatici stranieri - da quando è presidente - rientra il bollettino di guerra sulla campagna nel Sinai contro lo Stato Islamico (Isis) che ha rivendicato l’autobomba: «In 11 giorni abbiamo eliminato 252 terroristi, 63 sospetti sono stati arrestati e 13 sono ricercati» afferma il ministero della Difesa, parlando anche di «scoperta di nascondigli e cattura di armamenti».
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