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Informazione Corretta Rassegna Stampa
13.07.2015 Esilio non Diaspora
Commento di Manfred Gerstenfeld

Testata: Informazione Corretta
Data: 13 luglio 2015
Pagina: 1
Autore: Manfred Gerstenfeld
Titolo: «Esilio non Diaspora»

Esilio non Diaspora
Commento di Manfred Gerstenfeld

(Traduzione di Angelo Pezzana)

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Dopo il 1948, molti ebrei nel mondo occidentale si sono sentiti appartenere ad una diaspora invece che in esilio e la ricostituzione dello Stato di Israele fu come una iniezione di fiducia, che modificò la percezione che avevano delle loro stesse vite. In più, molte istituzioni israeliane diffusero la parola diaspora per definire gli ebrei che non vivevano nel paese. Anche l’attuale governo israeliano – come i precedenti – ha un ministero che nel nome ha la parola “Diaspora”. In questo secolo, un numero crescente di ebrei europei si rendono conto – anche senza essersene ancora andati via - di non vivere più nella cosiddetta diaspora quanto piuttosto in esilio.

Questo cambio di prospettiva è il risultato del sentirsi presi di mira, estranei esposti alla violenza e obbligati a prendere misure per la propria sicurezza, cosa che non succede ad altri cittadini. A questo si aggiunge una crescente paura di manifestare la propria identità o esprimere liberamente le proprie opinioni come dovrebbe essere logico fare. Così, questi ebrei sono di fatto in esilio, anche se le loro condizioni di vita sono differenti da quelle degli ebrei europei subito dopo la fine della 2° guerra mondiale.

La Shoah ha insegnato agli ebrei che non erano considerati parte del paese in cui vivevano, non importa se ne avevano il passaporto. Non solo per quanto l’occupazione tedesca si rese responsabile, quanto piuttosto per il comportamento dei loro connazionali in quegli anni. Più di dieci anni fa, lo storico israeliano David Mankier descrisse in maniera eloquente la realtà polacca, il paese che aveva la più numerosa comunità ebraica in Europa prima della guerra. Quando lo intervistai, mi disse “Gli ebrei non sono mai stati considerati parte del tessuto nazionale della società polacca. I loro antenati potevano essere arrivati 900 o anche 1000 anni prima, ma dato che non appartenevano alla maggioranza, rimanevano degli stranieri. La maggior parte della gente non si rese conto della catastrofe che stava per abbattersi sugli ebrei polacchi e che avrebbe coinvolto l’intera nazione polacca. Al massimo venne fatto il paragone con l’invasione tedesca, contro la Polonia e, separatamente, contro gli ebrei”.

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L'antisemitismo, oggi: "Preparatevi al vero olocausto!"

Bankier citò anche una leader partigiana polacca, che sosteneva che bisognava salvare gli ebrei durante la guerra, ma che a guerra finita gli ebrei se ne sarebbero dovuti andare via, perché lei voleva vivere in un paese abitato solo dai suoi concittadini polacchi. La Shoah è stata una sfida enorme per tutti gli ebrei dei paesi sotto occupazione tedesca. Per gli ebrei assimilati fu anche una sfida intellettuale, perché la negazione dell’identità ebraica non servì a nulla. Erano i tedeschi a stabilire se uno era ebreo oppure no. Dopo la fondazione dello Stato ebraico, gli ebrei in Europa occidentale cominciarono gradualmente a sentirsi come gli altri cittadini.

L’anti-semitismo divenne meno evidente e agli ebrei si aprirono tutte le opportunità. In Olanda, alcune professioni istituzionali, per esempio sindaco, erano precluse de facto agli ebrei prima della guerra. Dopo, ci sono stati molti sindaci ebrei, nella sola Amsterdam, ce ne furono quattro. Anche la carriera diplomatica era preclusa agli ebrei, ma dopo la guerra, fra i diplomatici, ci fu anche un ebreo ortodosso. Negli anni ’50, nella scuola ebraica superiore di Amsterdam, il bidello apriva le porte quando suonava la campana, senza controllare chi aspettava di entrare. Negli intervalli, nelle scuole elementari ebraiche, noi ragazzini giocavamo in strada davanti alla scuola. Oggi, quando cammino per Amsterdam, vedo i ragazzini non ebrei delle scuole pubbliche giocare liberamente nel cortile della scuola, senza la paura che qualcuno possa mettere attentare alla loro vita. Nelle scuole ebraiche avviene l’opposto, gli edifici assomigliano a delle fortezze, e agli studenti si insegna che, quando escono, non devono indossare nulla che li possa identificare come ebrei. Una raccomandazione che viene fatta anche dai responsabili delle comunità.

In una radio-intervista del 2003, l’allora Rabbino Capo francese Joseph Sitruk disse agli ebrei francesi di portare un cappello al posto della kippà, per evitare di essere aggrediti in strada. Un esempio semplice e chiaro di come gli ebrei vengono insultati sul posto di lavoro, collegando Israele per quello che si ritiene commetta, mi venne raccontato da una infermiera ebrea di Amsterdam che ho intervistato e che mi ha chiesto di rimanere anonima per timore delle conseguenze. “ Ogni volta che sui giornali olandesi ci sono articoli su Israele, i miei colleghi discutono subito con me, come io rappresentassi la politica di Israele. Nessuno chiederebbe a uno che ha la famiglia in Italia ‘Berlusconi ne ha combinata un’altra?’ “ Alcuni mi dicono che è difficile raccontare la verità per chi vuole intervenire pubblicamente.

Nel febbraio di quest’anno, Roger Cukierman, a capo del CRIF, l’organizzazione che riunisce le comunità ebraiche francesi, affermò che “tutta la violenza contro la comunità ebraica era opera di giovani musulmani, anche se rappresentano una piccola minoranza all’interno della comunità musulmana”. Dopodichè il Presidente François Hollande lo invitò a un incontro di “riconciliazione” tra lui e un leader musulmano. L’obiettivo dell’incontro era chiaramente quello di evitare che la verità venisse detta. Stiamo ancora aspettando che un leader ebreo in Europa – sarebbe il primo – dica la verità, che l’immigrazione di massa e non controllata dei musulmani è la cosa peggiore che sia accaduta alle comunità ebraiche europee dalla fine della 2° guerra mondiale. A dire il vero, va aggiunto che questa situazione è dovuta in parte ai governi che hanno acconsentito indiscriminatamente l’ingresso, senza essere preparati a integrare i nuovi arrivati nella società.

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Anche questo è antisemitismo

Le reazioni di molti ebrei di fronte a questi sviluppi dimostrano che i loro comportamenti stanno diventando sempre più simili alla classica mentalità dell’ebreo in esilio. L’ha ampiamente chiarito uno studio condotto nel 2013 dalla “European Union Fundamental Rights Agency” in Francia, Belgio, Ungheria, Danimarca, Lettonia, Italia, Svezia e Gran Bretagna. Il 20% degli ebrei di questi paesi hanno dichiarato di evitare di indossare in pubblico qualunque cosa che possa identificarli come tali. Fra questi paesi, la Svezia è quella che ha la più alta percentuale, il 34%. Questo non si può spiegare soltanto con i frequenti attacchi anti-semiti a Malmoe, compiuti in gran parte da musulmani , in una città dove gli ebrei rappresentano meno del 10% della popolazione ebraica svedese.

Nel 2011, Islin Abrahamsen e Chava Savosnick, hanno condotto uno studio approfondito sulla comunità ebraica norvegese, sulle esperienze dei bambini ebrei e dei giovani in generale di fronte all’anti-semitismo nel paese. Vennero intervistati 21 giovani ebrei norvegesi, in età scolare fino al 25° anno. Lo studio rivelò che i giovani ebrei spesso non rivelano in pubblico la loro identità ebraica. Alcuno preferiscono cambiare scuola, oppure sono gli stessi genitori ad aver cambiato quartiere a causa degli attacchi antisemiti subiti. Ma nascondere la propria identità ebraica non è l’unico segno distintivo della rinnovata mentalità dell’ “esilio”, ce ne sono molte altre.

Se il fenomeno dell’ “esilio” è ormai un fatto stabile in Europa, si sta verificando anche negli Stati Uniti. Un esempio tipico è la reazione ebraica molto dibattuta alle varie affermazioni del Presidente Barack Obama, che regolarmente usa due pesi e due misure quando si tratta di Israele. La pressione sugli ebrei che non vivono in Israele aumenta, la mentalità dell’ “esilio” si propaga. Sta diventando sempre più chiaro che non possiamo più parlare di “diaspora ebraica”, ma va detto chiaramente “esilio” quello degli ebrei in Europa.

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Manfred Gerstenfeld è stato presidente per 12 anni del Consiglio di Amministrazione del Jerusalem Center for Public Affairs. Collabora con Informazione Corretta. E' appena uscito il suo nuovo libro "The war of a million cuts" (in inglese). E' una analisi di come ebrei e Israele sono delegittimati e come farvi fronte.


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