Le vittorie del sionismo e i pericoli imminenti nell’analisi di Ari Shavit
Lettera da Gerusalemme, di Angelo Pezzana
Ari Shavit
“Incrociamo le dita e tocchiamo ferro”, scrive stamattina Ari Shavit su Haaretz, la guerra di luglio/agosto dello scorso anno è lontana, e non ci sono avvisaglie in vista di una possibile ripresa. In Israele l’estate è tranquilla, Shavit elenca – fatto straordinario sul quotidiano che abitualmente è l’elenco dei disastri nei quali si dibatterebbe lo Stato ebraico - i successi che Israele può vantare senza tema di smentita. Si leggono con orgoglio, uno dopo l’altro, Shavit non ne dimentica nessuno.
Abu Mazen (a destra) con il leader di Hamas Ismail Haniyeh: tra terroristi ci si intende
Mentre intorno a Israele lo Stato Islamico penetra sempre più incessantemente in Tunisia, Libia, Sinai, Siria, Iraq; UE e Grecia rivelano la debolezza di quello che doveva essere il sogno di una Europa unita e il dramma degli immigrati sembra non avere vie d’uscita se non mettere in pericolo la sicurezza del vecchio continente, Israele è un’oasi rispetto al caos mediorientale. Le spiagge sono piene, come i ristoranti, scrive Shavit, anche se in calo il turismo tira, la gente lavora come sempre e si diverte.
Anche il governo, malgrado la barcollante maggioranza – 61 su 120 - e le polemiche tra ortodossi e riformati, infiammate dalla dichiarazione di David Azoulay, Ministro degli Affari religiosi e deputato Shas, che ha definito non ebreo chi non segue la Torah e i comandamenti, in pratica tutti gli ebrei non ortodossi, definendoli “un disastro per la nazione israeliana” - corretta poi come sempre avviene ai gaffeurs politici con un “anche se peccatori, sono ebrei” - tiene. Anche perché la maggioranza degli israeliani ha costruito un paese civilmente laico, con tutto il rispetto per i religiosi, ma critico con quelle forze politico/ortodosse che vorrebbero uniformare alle loro posizioni chi non la pensa allo stesso modo. Polemica rientrata, dunque, ma che contribuisce alla poca solidità del governo. Eppure Netanyahu, sia sul piano interno che internazionale, continua a ottenere un largo consenso.
Ma torniamo al pezzo di Ari Shavit, che passa in rassegna i successi del sionismo, con un linguaggio che più sionista non si può. Si ferma però, come sua abitudine, al ’67, vale a dire l’ ’occupazione’ quale conseguenza della vittoria nella guerra dei sei giorni. La fa con l’abituale onestà, scrivendo chiaramente che in Giudea e Samaria (scrive proprio così, Giudea e Samaria) non deve ripetersi un doppione di Gaza, con Hamas in una posizione tale da mettere in pericolo la sopravvivenza di Israele. Bisogna imparare la lezione dell’uscita unilaterale da Gaza del 2005, ma l’unico suggerimento che dà è la soluzione due popoli due stati, con confini sicuri e, presumo, accettati da entrambe le parti. Il problema è sapere che cosa si propongono veramente le parti, Anp e Hamas. La domanda se è conveniente firmare un pezzo di carta con un movimento terrorista, pronto a non rispettarlo, è più urgente che mai. Aspettiamo di conoscere il pensiero di Ari Shavit in una sua prossima analisi.
Angelo Pezzana