Riprendiamo dal SOLE 24 ORE di oggi, 05/07/2015, a pag. 32, con il titolo "Così Scholem ricordò Buber", la recensione di Giulio Busi.
Giulio Busi
Gershom Scholem, Martin Buber
La copertina
Nella vita vissuta, ogni amore che sfiorisce solleva lacrime, inganni, nostalgie. Ma in letteratura e in filosofia, dove la buona educazione dovrebbe imporre le sue ragioni, le grandi passioni hanno tempo di sfaldarsi più dolcemente, tra detto e non detto, sommerse da lunghi addii infarciti di congiuntivi, di distinguo, di frasi subordinate sensuali e ancora vogliose. Quello tra Gershom Scholem, lo svettante storico del misticismo, e Martin Buber, il pensatore forse più noto del giudaismo novecentesco, è stato amore di parole e di pensieri, durato cinquant'anni, e per cinquant'anni venato di rammarichi e di reciprochi rimproveri.
A un anno dalla morte di Buber, nel 1966, Scholem compose un lungo ricordo dell'amico, maestro, antagonista. È un documento importante, ora portato in italiano per la cura di Francesco Ferrari. Pagine utili per capire il tormentato vagheggiamento intellettuale tra i due, e ancor più per lasciarsi avvolgere da un senso di stupore per il maestoso giudaismo tedesco del secolo scorso, ora definitivamente tramontato, dissolto.
Scholem è pieno di reverenza, rievoca l'aura che emanava dalla persona di Buber, e a cui «nessuno poteva sottrarsi», loda lo stile brillante e il fuoco della prosa buberiana. E intanto, senza dare troppo nell'occhio, snocciola qua e là brevi frasi demoniache, incisi taglienti che danno sfogo a tutto il suo dissenso. Sì, ciò che faceva grandi loro, e troppo spesso piccini noi per difetto, era il bisogno imperioso, assillante di essere in disaccordo, di prendere di petto le questioni dialettiche come se mettesso ogni volta a repentaglio onore e reputazione.
Cosa rimprovera Scholem al padre dell'ebraismo dialogico? Di aver promesso e non mantenuto, di non essersi fatto capire da chi, pur ammirandolo, non riuscì mai a decifrarlo. «Il suo linguaggio è infinitamente colorito, poetico, ricco d'immagini, suggestivo e allo stesso tempo di una singolare indeterminatezza e impenetrabilità». E s'intuisce che "colorito" sta in vece di "patetico", essendo il pathos vizio capitale agli austeri occhi scholemiani. Buber l'antifilologo, che s'inoltra nella selva del chasidismo armato solo della propria intuizione, non può che deludere il campione della filologia del misticismo.
E dire che dal Buber giovanile, quello degli entusiasmi nietzschiani, pronto a cambiare il mondo e a giurare sulla fede sionista, Scholem era rimasto, a dir poco, stregato. Ancor più delle debolezzee dei solipsismi - «proietta il suo sistema nella sua interpretazione dei fenomeni storici» - Scholem non si può però dar pace della caduta. Del naufragio di tutte le speranze umanistiche e tolleranti di cui né Buber né alcun altro, in quella generazione ebraico-tedesca, può dirsi in verità colpevole. Non è un amore finito male, ad andare in scena nel volume scholemiano, ma un tortuoso ménage à trois. A tradire, e a sfiorire, è qui la Germania guglielmina e weimariana, amante infedele, che s'è concessa solo per rendere più desolato l'inganno.
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