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La Stampa Rassegna Stampa
01.07.2015 'La vergine sciocca' di Ida Simons, 'la Jane Austen di Anversa'
Recensione di Mario Baudino

Testata: La Stampa
Data: 01 luglio 2015
Pagina: 23
Autore: Mario Baudino
Titolo: «La bella Europa degli Anni Venti danza leggera sul precipizio»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 01/07/2015, a pag. 23, con il titolo "La bella Europa degli Anni Venti danza leggera sul precipizio", la recensione di Mario Baudino.

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Mario Baudino

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Ida Simons (nata Ida Rosenheimer)

Un padre «shlemiel», ovvero sfortunatissimo negli affari, che ritiene d’aver fatto «un grave torto all’umanità» per non essersi dedicato alle pompe funebri (in tal caso è certo che la gente avrebbe cessato di morire); un precoce talento musicale, nonne e madri bizzarre per non parlare degli zii e dei loro amici: e un’atmosfera sospesa e incantata nell’Olanda degli Anni Venti, dove fra Anversa e Scheveningen, con breve détour su Berlino, un’adolescente ebrea decide che sarà una della «vergini stolte» della parabola biblica, scegliendo il versante dell’arte, del sogno e in qualche modo dell’imprudenza.

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La copertina


La vergine sciocca di Ida Simons, romanzo emerso da oltre mezzo secolo di oblio, ci racconta questo mondo attraverso gli occhi della tredicenne Gittel, che osserva con partecipe distacco il mondo intorno a lei, cioè soprattutto la comunità di ebrei più o meno benestanti e a volte molto ricchi in cui è nata. Lo traduce nel linguaggio di un’adolescente, con l’ironia che nasce da una comprensione sempre incompleta e nello stesso tempo, proprio perché straniata, del tutto oggettiva. E’ un romanzo divertente e terribile, che quando uscì nei Paesi Bassi, correva l’anno 1959, fu accolto come un capolavoro.

Per la critica, era nata la «Jane Austen di Anversa», anche se la faccenda era decisamente più complicata. Dimenticato a poco a poco dopo la morte dell’autrice, ora La vergine sciocca è stato forse casualmente riscoperto in Olanda con un entusiasmo pari a quello di allora. E la traduzione italiana, a cura di Laura Pignatti (Rizzoli) ne dà ampiamente ragione. Ida Simons non potrà essere un caso Némirovsky se non altro perché autrice di questo solo libro (oltre a una raccolta di poesie e a un secondo romanzo uscito postumo, largamente incompleto) ma per altri versi può ricordare la scrittrice francese popolarissima nel primo dopoguerra del Novecento, e divorata dall’Olocausto.

Lei sopravvisse, portandone tuttavia i segni. Venne deportata a 31 anni, quando era già aveva realizzato il sogno della piccola Gittel che nel romanzo studia il pianoforte e si tormenta a lungo circa il proprio talento. Era ormai un’affermata concertista, suonò persino nei lager. Ma uscita dal campo di Terezin non riuscì a continuare a causa della salute irrimediabilmente minata, e in qualche modo divenne scrittrice, per così dire, di ripiego. L’aspetto straordinario del romanzo è proprio nel fatto che in esso, pur scritto anni dopo la tragedia, non ne traspare quasi nulla. Almeno, in modo esplicito.

Non ci sono (salvo un labile riferimento) tracce o annunci della persecuzione che di lì a poco avrebbe segnato e distrutto l’intera comunità. Ma proprio per questo, l’imminente Shoah giganteggia sullo sfondo, come un’ala nera che il lettore conosce, l’autrice conosce, e i suoi personaggi nemmeno sospettano. L’effetto di straniamento conferisce a questa narrazione quasi infantile una terribile potenza.

Nel tempo, il nome di Ida Simons è stato dimenticato. Poco si sa di lei (anche se una studiosa olandese sta lavorando a una biografia completa) e quel poco non riguarda neppure gli aspetti terribili della sua esistenza, dai trent’anni in poi.
Nasce come Ida Rosenheimer ad Anversa l’11 marzo 1911, da genitori commercianti agiati. Il padre è di nazionalità tedesca, la madre olandese ma, nata in Inghilterra, parla preferibilmente inglese. Cresce in ambiente plurilingue, tra il fiammingo, il tedesco, l’inglese e lo yiddish, vive da bambina in Belgio durante la prima guerra mondiale, ottiene la cittadinanza olandese nel ‘21, studia il pianoforte con un grande interprete di Chopin, Jan Smeterlin, diventa concertista; e nel ‘33, proprio l’anno della vittoria di Hitler in Germania, sposa il giurista David Simons, Nel ‘37 nasce il figlio Jan.

Sta vivendo l’esistenza che farà sognare alla sua piccola Gittel in apparenza al riparo dalla storia, in realtà su un crinale precario. Nel romanzo, e nella sua apparente ingenuità, irrompe ad un tratto un nome, un solo nome dalla vibrazione sinistra, che per la protagonista è soltanto «un tale dottor Hjalmar Schacht»: «fece qualcosa con il marco - scrive al proposito - e all’improvviso tornammo a essere poveri come a casa», interrompendo bruscamente una piccola parentesi nella Germania di Weimar che aveva regalato alla famiglia, data l’inarrestabile svalutazione della moneta, qualche mese di ricchezza a Berlino. Gittel è contenta di tornare in Olanda. Non sa, come invece saprà presto la Simons, che quel «tal Schacht» è la mente finanziaria di Hitler, l’uomo chiamato a risanare le finanze tedesche prima come presidente della Banca centrale e poi come ministro dell’economia, emarginato in parte dopo il ‘39, coinvolto nell’attentato al dittatore del ‘44, processato e assolto a Norimberga nel ‘45.

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