Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 30/06/2015, a pag. 28, con il titolo "La grande sete del Medio Oriente: l'altra faccia (liquida) della guerra", l'analisi di Lorenzo Cremonesi.
L'unico Paese che oggi dispone di una ricca riserva di acqua in Medio Oriente è Israele. Grazie alla minimizzazione delle perdite, al riutilizzo delle acque dolci e a numerosi impianti di desalinizzazione delle acque del mare, Israele gode oggi di una situazione idrica che fino a qualche decennio fa sembrava insperabile.
Chi in Italia ha più scritto sull'argomento negli ultimi mesi è Maurizio Molinari.
Ecco i link ad alcuni suoi articoli, ripresi da IC:
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=58387
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=58274
Perchè i paesi arabi -invece di attaccare quella che chiamano entità sionista- non imparano dalla sua esperienza ?
Ecco l'articolo:
Lorenzo Cremonesi
Chiamiamola subito con il suo nome: guerra dell’acqua. Un conflitto antico e attualissimo, subdolo e devastante. Dalle conseguenze potenzialmente più gravi di qualsiasi altro combattuto con armi convenzionali. Il blocco dei fiumi, la diversione dei canali, il pompaggio indiscriminato, l’inquinamento delle fonti, oppure la distruzione delle dighe, il bombardamento delle stazioni di filtraggio possono fare terra bruciata di economie intere, spingere all’emigrazione uomini e bestie, annullare civiltà, stravolgere la natura e la geografia del territorio. Torna in auge con il tema della scarsità idrica di fronte al boom demografico mondiale, il riscaldamento globale, l’inquinamento e i focolai di conflitto in espansione sul Pianeta.
Soprattutto la guerra dell’acqua è adesso parte integrante delle strategie adottate dallo Stato islamico (Isis) contro i suoi nemici e per costringere intere popolazioni alla sottomissione. Non è un caso che, nelle regioni dove il Califfato si sta espandendo, una delle prime azioni che compiono in genere le sue milizie è proprio attaccare i grandi impianti di gestione dei fiumi. Due anni fa in Siria i jihadisti di Isis si impadronirono della diga di Tabqa sull’Eufrate riducendone subito di un terzo il flusso idrico per alimentare le centrali elettriche destinate a fornire energia alle loro roccaforti attorno alla città di Raqqa.
E' il deserto che ha fatto gli arabi o gli arabi che hanno fatto - e continuano a fare - il deserto?
Conseguenza immediata fu ovviamente la penuria d’acqua nella Siria nord-orientale e in Iraq. Nella primavera dell’anno scorso vennero poi gli attacchi contro gli sbarramenti che regolano il fiume a Falluja e presso Abu Ghraib, preannunciando il blocco di quelli di Ramadi, che solo un mese fa hanno messo in ginocchio gli approvvigionamenti idrici di una parte dei quartieri di Bagdad e larghi settori delle province meridionali irachene, sino a Najaf, Karbala, Nassiriya e Bassora, le capitali dell’universo sciita. Negli ultimi giorni si sono prosciugate vaste aree delle celebri paludi verso il grande delta dove Tigri ed Eufrate diventano un fiume solo. Ma l’azione che probabilmente ha causato il maggior allarme e spinto gli Stati Uniti a intensificare l’intervento armato è stata nell’agosto 2014 il tentativo del Califfato di attaccare la grande diga a nord di Mosul. «Se fossero riusciti a far saltare le paratie, la vallata di Mosul avrebbe potuto venire devastata da un’onda alta oltre 20 metri. E la riserva d’acqua che disseta anche le province curde e il Nord sarebbe stata disseccata», ammettono preoccupati i responsabili del governo iracheno nella capitale.
Eppure, il problema non è nuovo e sarebbe un errore imputare il suo aggravamento unicamente alla presenza violenta e destabilizzante di Isis. «Oltre il 95 per cento delle risorse idriche irachene dipendono dalla Turchia. Soltanto meno del 5 per cento provengono da affluenti iraniani. L’Iraq non ha proprie sorgenti autoctone degne di questo nome. Le sue acque sono superficiali, arrivano dal Tigri e dall’Eufrate», spiega Giorgio Galli, direttore della Galli Ingegneria, lo studio di Padova che nel 2010 ha vinto la gara indetta dal governo iracheno per esaminare la situazione idrica del Paese e aiutare e lanciare i piani di sviluppo del prossimo futuro. È l’handicap storico della Mezzaluna Fertile, la culla della civiltà stanziale con lo sviluppo dell’agricoltura, la regione dei primi alfabeti, dei primi regni organizzati in Stati autonomi con intere fasce di popolazione dedicate alla costruzione dei canali e la centralizzazione delle decisioni per l’ottimizzazione delle risorse naturali.
«L’acqua, il clima, il deserto e la capacità di gestire le risorse offerte dai grandi fiumi. Queste terre possono essere fertilissime se ben amministrate, oppure aride distese sassose. Non è un caso che le grandi civilizzazioni assiro-babilonesi sprecarono gran parte delle loro risorse a farsi la guerra per il controllo delle acque. Una delle prime sfide registrata negli archivi scritti dagli uomini fu quella nel 2300 avanti Cristo tra le città sumere di Umma e Girsu, che si contendevano alcune terre fertili. Sappiamo anche che tre secoli dopo la città biblica di Ur, presso l’odierna Nassiriya, molto probabilmente iniziò a decadere proprio per il fatto che più a nord altre popolazioni rivali avevano scavato nuovi canali che contribuirono a deviare il corso del fiume ed insabbiare il suo porto commerciale», sottolinea Franco d’Agostino, archeologo all’Università della Sapienza di Roma da diversi anni impegnato in missioni di scavo proprio nella regione di Ur. Trascorrono i secoli, cambiano i millenni. Ma la strutturale dipendenza dell’Iraq dalle sorgenti dell’altopiano anatolico e i massicci montuosi oggi parte integrante del moderno Stato turco non cambia.
Le frizioni tra Bagdad e Ankara si fecero tese con lo sviluppo dell’agricoltura e dell’industria dopo la Seconda guerra mondiale. E’ dal 1946 che periodicamente tra i due Paesi torna il pericolo dello scontro militare, pesa come una minaccia incombente sui tentativi di trovare l’accordo sulla suddivisione del flusso dei due fiumi. Scontro che sin dai primi anni Settanta del Novecento si complica con l’irruzione della Siria in mano agli Assad, a sua volta interessata alla sua quota d’acqua per il tratto dell’Eufrate che ne attraversa il territorio. Negli anni Ottanta la decisione turca di costruire il complesso di dighe e sbarramenti denominato Ataturk, sempre sull’Eufrate, spinge Saddam Hussein a negoziare un accordo per avere garantita la quota minima di 500 metri cubi d’acqua al secondo nel tratto di fiume all’entrata dalla Siria. La tensione sale quando da Bagdad pretendono che la quota sia portata a 700 metri cubi.
La guerra del 1991 e poi l’invasione americana del 2003 nullificano però le capacità contrattuali irachene: Turchia e Siria a quel punto pescano quasi a piacimento dai bacini idrici e dalle quote che sarebbero destinati all’Iraq. «Il risultato è stato catastrofico. Oggi il governo iracheno ci ha chiesto di poter offrire un quadro il più possibile scientifico e accurato per poter riaprire la trattativa con Ankara e chiedere il sostegno della comunità internazionale a difesa delle sue rivendicazioni», osserva l’ingegner Galli. E i dati parlano chiaro: il Paese è sull’orlo del collasso, se il suo governo non prende provvedimenti al più presto siccità, epidemie, carestie saranno all’ordine del giorno. Se trent’anni fa il cento per cento della sua popolazione urbana aveva l’acqua in casa perfettamente pastorizzata (un dato che scendeva al 60 per cento nelle zone rurali), oggi il 16 per cento delle sue città soffre gravi difficoltà di approvvigionamento e il 20 per cento della popolazione globale beve da fonti inquinate o di pessima qualità. Nel 1985 l’intero afflusso annuale di acqua dolce era valutato in 66,7 miliardi di metri cubi, di cui 25,8 dall’Eufrate e 24 dal Tigri. Oggi però quel dato è sceso a 43,7 (18,4 dall’Eufrate e 15,9 dal Tigri).
Complessivamente dunque in quarant’anni l’acqua a disposizione dall’Iraq è diminuita di un terzo. E le proiezioni per i prossimi anni fanno temere il peggio. Secondo gli esperti dello Studio Galli, l’afflusso complessivo scenderà a 34,6 miliardi di metri cubi nel 2025, per poi precipitare a 28,5 dieci anni dopo. E a rendere ancora più nera la situazione è la crescita del tasso di salinità. Anche sotto questo aspetto si tratta di un processo di lungo corso. Già quattromila anni fa i contadini sul delta del Tigri e dell’Eufrate — progenitori dei cosiddetti «arabi delle paludi», sciiti che Saddam Hussein volle scacciare in massa prosciugando il loro habitat antico negli anni Ottanta — periodicamente lamentavano che a fine estate l’acqua diventava imbevibile a causa delle grandi quantità di sali minerali concentrate nelle regioni che si affacciano allo Shatt el Arab e lungo l’attuale confine con l’Iran.
Per comprendere l’accresciuta gravità del fenomeno e l’emergenza attuale occorre tenere a mente che dai rubinetti italiani in genere la salinità media varia tra i 100 e 200 milligrammi al litro. Nel 1980 il Tigri misurato presso la cittadina di Amara riportava però già un allarmante 537, che sale agli attuali 1.158 registrati nel gennaio scorso. Per l’Eufrate è molto peggio: da 1.424 riportati nel 1980 agli odierni 3.055. Ciò significa in parole povere che entrambi i fiumi vanno filtrati per poter tornare potabili. Con tassi tanto alti di salinità anche l’agricoltura diventa impossibile: l’antica Mezzaluna Fertile sta sempre più trasformandosi in un deserto salato che le guerre tra gli uomini sono destinate a rendere ancora più amaro.
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