Riprendiamo da SETTE, a pag. 32-35, con il titolo " 'Il mondo? E' come ce lo raccontiamo'. Così Natalie Portman, per ritrovare le sue radici, incarna la madre (suicida) dello scrittore Amos Oz", l'intervista di Edoardo Vigna.
Natalie Portman
"C'erano una volta due monaci che si sottoponevano a ogni sorta di privazioni. Tra le altre cose, si erano condannati ad attraversare a piedi tutta la terra dell'India. E si erano imposti anche un silenzio completo... senza lasciarsi scappare un suono nemmeno nel sonno, mai". Ha occhi neri e profondissimi, Natalie Portman. La cinepresa inquadra le sua dita che giocano con la mano del bambino a cui, lei, mamma seduta sul bordo del letto, racconta questa favola indiana. Ia voce dolce ricerca tutta la musicalità della lingua ebraica. «Ma un giorno, mentre passavano presso gli argini di un flume, i due udirono una donna che stava affogando, e strillava aiuto dalla corrente. Senza dir nulla, il più giovane dei due balzò nell'acqua, prese la donna sulle spalle e la portò a riva, la depose sulla sabbia senza dire una parola Poi i due asceti proseguirono per la loro strada, nel solito silenzio assoluto».
Lo sguardo intenso della star di Hollywood stringe a sé il figlio: con questo racconto vuole consolarlo dopo la vergogna per essere stato la causa di un incidente. La pellicola gira... «Sei mesi dopo, il giovane d'un tratto aprì la bocca e domandò all'altro: dimmi, pensi che abbia peccato, portando quella donna sulle spalle? E il suo compagno gli rispose con una domanda: insomma l'hai per caso ancora sulle spalle?».
Amos Oz
Quante cose insieme è Una storia di amore e di tenebra, (in originale A tale of love and darkness) il film presentato poche settimane fa (fuori concorso) al Festival di Cannes. Certo, è (ovviamente, ed è tutt'altro che banale) l'esordio alla regia, a 34 anni, dell'attrice premio Oscar per Il cigno nero, che si ritaglia anche il ruolo da protagonista. È un'opera difficile, (che fors'anche per questo attende ancora una data d'uscita, negli Stati Uniti e nel mondo), girata tutta in lingua ebraica per volontà precisa della stessa regista. «È la lingua più magica che conosco: e ne conosco diverse...». E poi c'è il fatto che si tratta dell'adattamento al cinema del più intimo e autobiografico libro (del 2003, pubblicato in Italia da Feltrinelli, splendidamente tradotto da Elena Loewenthal) di Amos Oz, quello in cui, per la prima (e ultima volta), il grande scrittore israeliano ha tolto il velo al suo trauma più profondo: il suicidio della madre Fania, avvenuto quando lei aveva 39 anni e lui soltanto 12 e mezzo.
Com'è incredibile la vita, certe volte, quando procura incontri così improbabili fra due esseri umani tanto lontani, nello spazio e nel tempo, eppure tanto vicini. Quante possibilità c'erano, in fondo, che accadesse? Quarantadue anni, un mese e 5 giorni dividono Natalie e Amos. Una città, Gerusalemme, li unisce: natale per entrambi. Un abisso temporale, un luogo sulla carta geografica. Eppure sono lunghi e imprevedibili, i percorsi dell'esistenza. Sembrano quelle linee traccianti delle vecchie cartoline in cui le luci bianche e rosse dei fanali impressionano la pellicola segnando scie infinite, e s'intrecciano — nello stesso punto, eppure in momenti diversi — nei loro vibranti percorsi di viaggio.
Il libro
Folgorazione a prima Iettura. Proprio questo è successo, invece, a Natalie Portman. Natalie Hershlag, in realtà. Lei, figlia di un medico israeliano e di un'americana ebrea (casalinga), portata via a tre anni dalla città simbolo d'Israele («Che è incisa nei miei geni»), prima a Washington e poi a Long Island (oggi vive a Parigi con il marito Benjamin Millepied, coreografo al Paris Opera Ballet, e il figlio Aleph, di tre anni). «Quando ho letto il libro, sette anni fa, sono rimasta folgorata. Mentre lo sfogliavo, già m'immaginavo come avrei voluto farlo diventare un film», ripete l'attrice.
Che, seguendo il percorso delle parole di Oz, s'è trovata affacciata sull'abisso della propria storia personale. Così, arrivata alla riga finale, è andata a trovare lo scrittore, e la moglie Noli, nell'appartamento di Tel Aviv, per convincerlo — bevendo un tè — a lasciarle i diritti del manoscritto. «Il linguaggio è ciò che mi ha travolto all'inizio. L'ossessione di Oz per le parole, il modo in cui sono connesse tra loro, in ebraico, che ha questa incredibile magia e forza poetica. Quasi impossibile da tradurre. Gli ebrei sono un popolo costruito sulle parole. Sui libri. Una cosa bella, anche se strana, per cominciare a girare un film». Comunque, è così che accade, talvolta.
È un'illuminazione. Non lo sai quando. Può essere un incontro, un amore. Il racconto di un evento della vita, o l'opera di un'artista. Ma all'improvviso ti trovi davanti a qualcosa che ti è troppo familiare per non essere... te. O, almeno, per non offrire la chiave indispensabile ad aprire la porta che ci fa accedere dentro il punto più occultato e protetto di noi stessi. Le pagine di Oz sono in realtà una straordinaria confessione dello scrittore che narra, andando — indietro, avanti e poi di nuovo a ritroso, come un'onda — la storia della sua famiglia fin da prima dell'arrivo di nonni, zii e genitori — ebrei colti, raffinati intellettuali e commercianti — nella "terra promessa". Da quando ramo paterno e materno si muovevano ancora tra Ucraina, Polonia, Russia, città baltiche, America. Una storia che s'intreccia in ogni diramazione delle sue radici con "la Storia": quella della nascita dello Stato d'Israele. E, in realtà, anche con le radici della stessa Natalie Portman.
Sofferenza e umiliazione. È quella scia di luce che disegna traiettorie sovrapponibili, ma sfalsate nel tempo. I nonni materni dell'attrice-regista, infatti, erano arrivati negli Stati Uniti dall'Austria e dalla Russia alla fine dell'Ottocento; dalla parte del padre, invece, la famiglia proveniva dalla cittadina polacca di Rzeszow, a metà strada tra Cracovia e Leopoli, da dove il nonno, nel 1938, emigrò nell'allora Palestina: «Non parlava mai di quegli anni», racconta lei oggi. «Durante la guerra, il fratello minore, che aveva 14 anni, aveva tentato di sfuggire ai nazisti. Ma appena era uscito dal suo nascondiglio, l'avevano ucciso, in mezzo alla strada. Era un ragazzo discreto ma brillante, il tipo che sapeva recitare le preghiere nelle sere di festa. Ho tentato di immaginarlo spesso, bambino, lui, o suo padre, deportato ad Auschwitz. C'era la coscienza della sofferenza fisica che raddoppiava per l'umiliazione. Quando cresci in una famiglia ebrea, ascolti tante storie di fantasmi. E che altro dovresti ascoltare?».
Fantasmi, certo. Una storia di amore e di tenebra ne è pleno: di filosofi, scrittori, uomini pubblici. E ci sono le apparizioni, come quella del "padre" della patria, David Ben Gurion, che Oz incontrò dopo essere andato a vivere, alla morte della madre, in kibbutz. Ci sono le ombre degli uomini e delle donne che festeggiarono in strada il voto dell'Onu per il Piano di spartizione della Palestina, nell'unica notte in cui Amos vide il padre piangere. Anzi, in cui, accarezzandogli il viso, le sue «dita incontrarono le lacrime. [...] Solo la mia mano sinistra vide». E spettri sono quelle 21 mila persone della città di origine della madre di Oz (che nel 1934 era emigrata in Palestina), parenti, amici, conoscenti, trascinati fuori dalle loro case tra il 6 e il 7 novembre del 1941 a Rovno, città sotto sovranità polacca fra le due guerre, e trucidate a colpi di mitragliatrice nei boschi dopo essere stati costretti a spogliarsi davanti alle fosse comuni.
«Ma il film rappresenta il mio ritorno alle origini e racconta la storia di una famiglia: la politica è sullo sfondo», ha precisato, nel presentarlo a Cannes, Natalie Portman. Che, comunque, è sempre stata anomala come attrice: dal "sabbatico" preso dalla recitazione per laurearsi ad Harvard alle scelte dei ruoli, spesso anomali, dalla regina Padmé Amidala in Star Wars a V per Vendetta e a Knight of cups, il nuovo film del regista cult Terrence Malick.
E così non ha mancato di far sentire la sua voce contro la rielezione di Bibi Netanyahu a premier. «Sono assolutamente contro di lui. Trovo i suoi commenti razzisti orrendi».
"Un'ebrea dell'Europa centrale. Come me". Se la scelta di trasformare in pellicola il libro è stata una "scelta di vita", possiamo anche ben immaginare l'impressione forte da cui l'attrice può essere stata attenagliata quando, di Fania Klausner (il cognome "rinnegato" dallo scrittore), deve aver visto l'unica foto resa pubblica dal figlio: una donna dai lineamenti dolci, ma soprattutto, così simili e somiglianti a quelli della stessa Natalie. «È una ebrea, originaria dell'Europa centrale. Come me», si è limitata a commentare in un'intervista a Le Monde. Di sicuro, se, come diceva Nietzsche, nel dolore si trova la vera origine della memoria umana, la vicenda al cuore "personale" del libro ha avuto un ruolo importante nello spingere la giovane neo-regista a fare di tutto per realizzare questo film (girato – va da sé – a Gerusalemme). Il suicidio di una giovane donna dovuto a quel «qualcosa di crepuscolare, tra il sublime e il tormentato, il sognante e il solitario» che arrivava, nell'animo di Fania, dal tempo del liceo, prima di giungere in Palestina, «che tarlò mia madre per quasi tutta la vita e l'avvinse finché non ne fu sedotta e si uccise», comè scritto nel libro dal figlio.
Non che la neoregista avesse spazio per un'ulteriore indagine, però. «Ce l'avevo con lei (Fania, ndr), che era sparita senza salutare, senza un abbraccio, senza una parola di spiegazione», scrive Oz del suo animo dopo la tragedia. «Ma se nemmeno un perfetto estraneo, nemmeno il portalettere o venditore ambulante di mercerie che suonava alla porta mia madre riusciva a congedare senza offrirgli un bicchiere d'acqua, un sorriso, una piccola scusa, qualche parola gentile». E poi: «Più smettevo di odiare mia madre, più cresceva la repulsione per me stesso. Ma non ero più in collera con lei, anzi incolpavo me stesso: se solo fossi stato un bambino più bravo, più giudizioso, se non avessi sparpagliato per terra i miei vestiti...».
No, questa perdita ha scavato nello spirito dello scrittore per così tanto tempo che per Natalie non c'erano opportunità di approfondire, trovare spiegazioni. La ricerca di Natalie, il suo scavo dietro la cinepresa, si doveva espandere lungo ramificazioni diverse. Come quella del "mito", un punto chiave sia nel lavoro di Amos Oz, sia nella nascita dello Stato di Israele. «È il tema centrale», è la sua spiegazione. «L'idea della mitologia attraverso la narrazione. Lo "storytelling' è la strada attraverso cui costruiamo la nostra identità come esseri umani. Quali ricordi scegliamo quando raccontiamo la nostra vita? Quali scegliamo come importanti, come le mettiamo in connessione fra di Ioro? Così scegliamo di dire se il barbecue della scorsa settimana era un evento importante o se la perdita di un genitore è un turning point, un momento di svolta. Quali sono i momenti significativi nella nostra storia? Succede agli individui e succede alle nazioni. E anche le etnie selezionano quei momenti. È ciò che ci dicono perfino le nostre vacanze... Naturalmente, le storie diventano mito perché sono definite dai "narratori".
Così, mentre sono cruciali per dare identità, dobbiamo stare anche attenti a quali storie scegliamo di narrare perché definiscono anche i nostri sogni, danno forma alle nostre aspettative, al modo in cui guardiamo il mondo. In questa storia, il giovane autore Amos, sua madre, le storie che lei definisce per creare il suo mondo la portano alla delusione verso quel mondo».
La narrazione della propria vita. In fondo, è questo che unisce Natalie Portman ad Amos Oz. Due esseri umani il cui "turning point" — singolarmente — è arrivato alla stessa età: a 12 anni (quelli che l'attrice aveva quando ha esordito nel film drammatico León, con Jean Reno). Due "piante" dal tronco di ben diverse dimensioni ma con le radici avviluppate. Ora, però, è il momento del silenzio. Per entrambi. Per la regista, fino all'uscita della pellicola nelle sale. Per Amos Oz, che fa sapere che «è colpito dal film, ed è grato a Ms. Portman per averlo realizzato» ma non farà ulteriori commenti, «nemmeno sul rapporto fra film e libro», perché pensa che, «a questo punto, l'intero palcoscenico vada lasciato a lei». Insomma, la missione di Natalie è compiuta. Certo, ora toccherà al film, quando arriverà nelle sale. Ma questo, come dice Natalie Portman, riguarda la "narrazione" verso l'esterno. Lei, intanto, il suo viaggio, quel ritorno alle origini, è riuscito a portarlo a destinazione.
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