Riprendiamo dalla REPUBBLICA, a pag. 51, con il titolo "Autoritratto yiddish tra memoria e storia dell'artista bambino", la recensione di Susanna Nirenstein a "La pecora nera" di Israel J. Singer.
Susanna Nirenstein
Israel J. Singer, la copertina
Puro piacere. La pecora nera, l'ultimo lavoro di Israel Joshua Singer (Adelphi, curato con sapienza da Elisabetta Zevi, tradotto da Anna Linda Callow, pagg. 239, euro 18), è una scatola a sorpresa da cui escono non solo il ritratto dell'artista da bambino fino all'adolescenza, ma la sua relazione con la memoria e la storia, il retroscena di tutto il suo lavoro, l'intreccio tra il divenire del suo sé e l'universo intonso yiddish a cavallo tra Otto e Novecento, tra l'intolleranza già manifestata a 3 anni al "giogo della Torah", e la sua rapita curiosità per ogni cosa e persona, chassid festanti e entusiasti quanto pii come suo padre, rabbini sapientissimi come suo nonno, stregoni, personaggi buffi o commoventi tra cui il fatidico Yoshe Kalb su cui poi scriverà un romanzo, messia in arrivo, Theodor Herzl aborrito dai religiosi, cosacchi con l'orecchino, l'ultimo dei poveri e il primo dei ricchi, donne intellettuali come sua madre, sposi insoddisfatti e decisi al divorzio per poi tornare sempre alla vecchia moglie anche se non sa cucinare bene il gefilte fische, ebrei lituani vestiti peccaminosamente all'occidentale...
«Un mondo» - come recitava il titolo originale di questo che doveva essere il primo libro, scritto a 51 anni, della sua autobiografia e che invece uscì postumo, nel '46, a puntate sul Jewish Daily Forward - «che non c'è più». D'altra parte, come diceva un suo saggio, «l'esilio - e la perdita di questo universo - non può che sopraffare lo scrittore». Eppure nella Pecora nera vince su qualsiasi nostalgia la monelleria che dà vita a mille scene. Di Israel Joshua Singer, il fratello maggiore del Nobel Isaac Bashevis e ben più noto di lui prima della precoce morte nel '44, abbiamo letto romanzi geniali. Era un narratore naturale - così lo definiva lo stesso Isaac -, e si è misurato con i grandi fatti della storia ebraica europea sapendone vedere le crisi identitarie fuori dalla tradizione (Yoshe Kalb), le amare dinamiche famigliari nel cuore dei primi rivolgimenti della modernità novecentesca (I fratelli Ashkenazi) e la catastrofe della Shoah (La famiglia Karnowski), poco prima che lo spezzasse un attacco cardiaco a New York, dove si era trasferito nel 1934.
La pecora nera è Israel Joshua bambino, incapace di sottostare alle rigide regole dell'ebraismo chassidico del suo babbo rabbino un minuscolo shtetl, Leoncin, 200 anime in case basse dalle tegole di legno e strade bianche e sabbiose, dove un gatto con gli stivali e la sigaretta in bocca occhieggiava dall'insegna del tabaccaio. Si tratta di un luogo a parte, assolutamente più isolato di quello che poi descriverà Isaac Bashevis in Alla corte di mio padre, centrato sulla famiglia trasferita a Varsavia. In Israel regna la riottosità alla religione e alla superstizione di cui sentiva quasi un cattivo odore. Suo padre diceva alla mamma «Che il Misericordioso ci salvi!Questo ragazzo non ha proprio niente dell'ebreo... Guardalo, Esaù fatto e finito».
La concretezza di Israel Joshua è confermata in uno degli ultimi capitoli della Pecora Nera: «nel mio libro di preghiere era stampata l'avvertenza che durante una certa supplica non bisognava per nessun motivo menzionare il nome dell'angelo del fuoco (...) che avrebbe potuto ridurre in cenere il mondo intero (...). A bassa voce, in modo che nessuno lo sentisse, colmo di paura, pronto al peggio, pronunciai il nome proibito, chiudendo gli occhi per non assistere al cataclisma (...). Ora la mia fede nei testi sacri era definitivamente compromessa».
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