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La Repubblica Rassegna Stampa
24.06.2015 Hamas prende tempo: è debole, ma non cerca la pace
Precipitosa apertura di credito di Fabio Scuto ai terroristi

Testata: La Repubblica
Data: 24 giugno 2015
Pagina: 18
Autore: Fabio Scuto
Titolo: «Quella tregua non scritta tra Hamas e Israele: 'Così rinasce Gaza'»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 24/06/2015, a pag. 18-19, con il titolo "Quella tregua non scritta tra Hamas e Israele: 'Così rinasce Gaza' ", l'analisi di Fabio Scuto.

L'apertura di credito di Fabio Scuto nei confronti di Hamas - una organizzazione terroristica riconosciuta - è precipitosa e ampiamente prematura. Quello che comunque traspare dall'analisi è che Hamas, oggi, accetta una situazione di non belligeranza semplicemente perché è debole e deve fare i conti con cellule dello Stato islamico presenti a Gaza.
La locuzione "Gaza assediata da Israele", utilizzata da Scuto, è una falsità, dal momento che Israele non ha mai interrotto il flusso di beni di ogni genere (tranne le armi) verso la Striscia di Gaza.

Ecco l'articolo:


Fabio Scuto


Immagine-promemoria per gli smemorati: ecco che cosa è Hamas

In questo fazzoletto di terra che è la metafora di tutto ciò che è sbagliato si è accesa una flebile speranza. Una hudna , una tregua, è di fatto in vigore da qualche settimana. Una speranza effimera che i due milioni di abitanti della Striscia auspicano diventi qualcosa di più concreto un anno dopo l’ultima devastante guerra della scorsa estate. Altrimenti ci sarà presto un altro scontro militare fra Hamas e Israele. Perché questo è il destino maledetto dei gazawi. Vivere sospesi, assediati da Israele e usati dagli islamisti come carne da macello, senza un futuro. È una vita senza un domani. Ma per assurdo che possa sembrare, nel posto peggiore al mondo per un bambino dove nascere secondo l’Unicef, c’è uno dei più alti tassi di natalità del pianeta. Per le strade di Gaza in questi giorni si respira un’aria diversa.

I primi benefici di questa tregua — negata dai protagonisti della trattativa — si cominciano a vedere. Hanno l’aspetto dalle enormi volute di polvere che si levano verso un cielo incredibilmente azzurro lungo la Salaheddin, la grande arteria stradale che percorre da Nord a Sud tutta la Striscia. Sono le rudimentali macchine tritacemento che ricavano dalle rovine rimosse dalle strade il materiale base per costruire nuovi mattoni, insieme alla sabbia e all’acqua. Ce ne sono decine in funzione grazie a piccole attività familiari avviate rapidamente per far fronte alla fame di cemento della Striscia. Centomila case sono state danneggiate o distrutte e «se non si spara si può ricostruire», spiega con stringente logica Youssuf Adhi, emergendo da una nuvola di pulviscolo di cemento. È vero: a Gaza non si spara più. È il frutto di una mediazione che ha tirato dentro Onu, Israele, Hamas, Qatar ed Egitto.

Non c’è un accordo firmato e nessun impegno scritto, ma solo la volontà di affrontare le questioni umanitarie ed evitare un altro drammatico scontro armato. Hamas è debole e stanco e non vuole un’altra guerra a breve, ha schiacciato l’insorgenza salafita e vuole dimostrare di essere il vero “padrone” di Gaza. Dall’altro lato il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha compreso che rispondere “alla calma con la calma” non era più possibile e per questo la morsa sulla Striscia si allenterà progressivamente: se Hamas avrà “un buon voto di condotta” beni e materiali continueranno ad affluire. Se poi tra un anno questa hudna sarà ancora rispettata ,Israele accetterà che a Gaza sia costruito un porto galleggiante come chiede Hamas. Si va avanti così senza accordi scritti, né ad Hamas né a Israele fa comodo pubblicizzare l’intesa. Il segno che qualcosa sta cambiando paradossalmente è una strada in terra battuta, costruita in gran fretta sotto l’occhio attento dei miliziani delle brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas.

Corre a poche centinaia di metri di distanza dal confine lungo i 37 chilometri della Striscia con Israele. Una zona un tempo off-limits per i palestinesi, perché si vedono distintamente le fattorie israeliane dall’altra parte. I trattori nei campi, gli scuolabus gialli che riportano a casa i ragazzini il pomeriggio. Prima bastava avvicinarsi e a 300 metri dal confine entravano in azione i tiratori scelti dell’Idf. Adesso Israele ne ha accettato la costruzione nella convinzione che possa aiutare Hamas a controllare il territorio ed evitare azioni dei gruppi salafiti filo-Is che lottano contro il potere degli islamici. È strano vedere adesso i pick-up bianchi con le bandiere delle Brigate al Qassam che incrociano lungo le due strade parallele al confine le Humvee degli israeliani. Un anno fa la guerra, le stragi di civili, i soldati rapiti, le immani distruzioni, le accuse di crimini di guerra ad entrambe le parti.

Ora c’è quasi indifferenza. «Manca solo che si stringano la mano», dice Khalil Jenja, un agricoltore il cui campo di pomodori confina proprio con la “strada di Hamas”. È stato riaperto il valico di Erez e passano circa 1000 palestinesi al giorno, il Qatar ha ottenuto di far passare i materiali per costruire un nuovo quartiere con 3.000 appartamenti. Nel piazzale del valico di Kerem Shalom, centinaia di camion carichi di materiali da costruzione aspettano il proprio turno per essere ispezionati dai doganieri israeliani e passare dall’altra parte. Ogni carico viene poi “scortato” dall’Onu per evitare che “qualcuno” possa appropriarsene e usarlo per scopi militari. Passano per questo valico — l’unico per le merci — dai 600 agli 800 camion al giorno.

Anche il valico di Rafah con l’Egitto viene aperto almeno tre giorni a settimana. Dopo aver messo Hamas nella lista dei gruppi terroristi tre mesi fa, il presidente Al Sisi ha cambiato idea. Hamas è stato riabilitato. Ma fino a un certo punto. Oltre il muro che marca i 13 chilometri di confine fra la Striscia e l’Egitto, dopo una zona cuscinetto larga quasi due chilometri, si sentono i motori delle grandi ruspe dell’esercito che stanno scavando un’enorme trincea. Sarà profonda 20 metri e larga 10. Impedirà ai contrabbandieri dei tunnel di portare dentro Gaza materiali e armi come in passato, quando dal ventre di sabbia del Sinai arrivava qualunque cosa e nascevano legami pericolosi fra Hamas e i gruppi armati jihadisti egiziani. Recentemente sempre più giocatori sulla scena internazionale — Stati, movimenti, entità, gruppi armati — hanno avuto bisogno di un termine per definire una situazione in cui un altro giocatore è contemporaneamente sia amico che nemico: è il frenemy ( friend +enemy ).

Il frenemy ha un rapporto complesso con l’ambiente circostante, combatte un rivale ma aiuta allo stesso tempo un altro dei suoi altri nemici. Hamas è per Israele un frenemy . È in guerra con Israele, ma lotta contro i salafiti che sfidano la sua autorità, e questo è conveniente per la sicurezza di Israele. «Una nuova realtà richiede nuove tattiche e strategie», spiega l’ex capo del Mossad Efraim Halevy. Questo dialogo sotterraneo, e negato da entrambe le parti, non deve trarre in inganno. Israele e Hamas continueranno a prepararsi per la prossima guerra come se non ci fosse un’altra alternativa. Che forse nella realtà alla fine non c’è. Il frenemy in un attimo torna enemy e questo i gazawi istintivamente lo sanno.

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