mercoledi` 27 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Io Donna Rassegna Stampa
23.06.2015 Una trappola per i lettori su 'Io donna', settimanale del Corriere della Sera
Commento di Fiamma Nirenstein in esclusiva per IC (con preghiera di massima diffusione possibile)

Testata: Io Donna
Data: 23 giugno 2015
Pagina: 38
Autore: Fiamma Nirenstein - Emanuela Zuccalà
Titolo: «Tour tra le terre dell'odio»

Riprendiamo da IO DONNA, a pag. 38-42, con il titolo "Tour tra le terre dell'odio", il reportage di Emanuela Zuccalà, preceduto dal commento di Fiamma Nirenstein in esclusiva per IC (con preghiera di massima diffusione possibile)


Fiamma Nirenstein

Raramente si è potuto leggere sulla stampa italiana, pure ricchissima di articoli antisraeliani, un esempio ignorante come quello che ci ha presentato questa settimana il settimanale del Corriere della Sera "Io donna". La cosa peggiore è il travestimento patinato, che ci presenta come un reportage un pezzo di pura propaganda. Una vera trappola per i lettori.

Senza entrare nella quantità di osservazioni arbitrarie, pretestuose e inesatte che l’autrice fornisce, basti notare che il pezzo è una visita frettolosa di qua e di là per Gerusalemme e dintorni considerando in sostanza la presenza ebraica come un’intrusione arbitraria e persecutoria nei confronti dei poveri palestinesi, che per l’appunto proprio in quest’ultima settimana hanno compiuto due attentati terroristici, di cui uno mortale contro due pacifici cittadini in gita presso una sorgente.

Come niente fosse l’autrice senza minimamente tenere conto dei motivi strategici e di sopravvivenza (vitali, e non arbitrari!) per cui si costruisce a Gerusalemme, del tutto inconsapevole di alcuni fatti fondamentali come per esempio che Gilo era zona del tutto disabitata (come molte altre della zona) se non per la presenza di una postazione militare giordana che sparava dall’alto sui cittadini di Gerusalemme, ignorando che le costruzioni spesso sono interventi minimali per consentire la crescita naturale delle famiglie, che anche i palestinesi riempiono Gerusalemme est di costruzioni illegali, e anche che se la Giordania non avesse attaccato Israele nel '67 lo status quo precedente sarebbe stato conservato senza problemi.

Che importa tutto questo alla giornalista di Io donna? E che cosa importa che Hevron, citata persino nella Bibbia come capitale del re David (sciocchezzuole!) e antichissima città ebraica da cui gli ebrei non se ne sono mai andati (quisquilie!) sia stata regolarmente suddivisa, lasciando con grande sacrificio l’80 per cento ai palestinesi, dall’accordo di Wye Plantation fra Arafat e Netanyahu nel 1997 quando Israele, nonostante il retaggio storico sovrastante (la Tomba dei Patriarchi non è acqua, la strage del 1929, la continua eroica presenza ebraica dalla notte dei tempi non sono certo pretesti per mantenere un importante presidio in quella città per altro oggi capitale nel West Bank di Hamas, ma forse la giornalista preferisce che questo ne sia il ruolo). Data la delicatezza dell’argomento ci aspetteremmo che un giornale serio come il Corriere applicasse una supervisione giornalistica attendibile a quello che esce sulle pagine dei suoi inserti.

Ecco l'articolo di Emanuela Zuccalà:


Emanuela Zuccalà

Da quest'altura ventosa nel Sud di Gerusalemme si fatica a sovrapporre in un'unica immagine la veduta aperta sui sobborghi di edifici squadrati e l'intricata mappa nelle mani di Betty Herhman. «Siete al confine tra la zona palestinese di Belt Safafa e l'insediamento ebraico di Givat Hamatos, il più recente in città, in espansione. Laggiù c'è la grande colonia di Gilo, sotto la quale sorgerà un'autostrada per collegare le colonie della Cisgiordania a Tel Aviv. Una spina nel fianco del processo di pace».


Una delle foto  dell'ignobile servizio fotografico a corredo del reportage di Io donna

Siamo una decina d'italiani, oggi, a seguire il passo svelto di Betty, un'ebrea americana che viveva a Boston, lavorava nel sociale e non si curava delle vicende israeliane. «Finché nel 2007 capitai a Gerusalemme per un master - racconta - e decisi di trasferirmi: qui ho trovato l'amore e una professione che mi tocca nel profondo». La sua associazione Ir Amim studia e mappa la caotica urbanistica di Gerusalemme Est, dove i quartieri arabi si sfilacciano sotto il peso delle colonie ebraiche illegali, di piani comunali discutibili, del muro e dei checkpoint. Armi sottili, fatte di espropri e burocrazia, che sezionano ogni pezzetto di Gerusalemme infierendo su un processo di pace già in coma. Ir Amim porta turisti e visitatori in minibus lungo il perimetro orientale della Città Santa: un tour nelle ferite della terra più contesa, lontano dai gioielli della Old City, tra linde colonie ebraiche arroccate e quartieri arabi poveri di servizi.

Come Jabal Mukabber, dove i coloni hanno marcato il territorio prendendosi tre edifici. Come l'insediamento di Har Homa che deturpa lo skyline verso Betlemme. La tappa chiave è però Silwan, tra i più popolosi quartieri arabi in città, a ridosso della Spianata delle Moschee, divenuto un grumo di tensione per la presenza di coloni radicali. «Hanno fatto pressioni sulla gente per comprare le loro proprietà» ricorda Betty. «Poi hanno scelto un metodo più efficace: la Città di David, il sito archeologico ebraico dentro Silwan destinato a coprire 16mila metri quadri». I lavori in corso tra le rovine suggeriscono che tutto procede liscio, nonostante i dubbi sulla datazione storica e le proteste dei palestinesi e di intellettuali israeliani, tra cui David Grossman. «Ma gli ultra-nazionalisti hanno appoggi governativi» conclude la nostra guida. «E politicizzano persino l'archeologia».

A una cinquantina di chilometri a Sud, nella città di Hebron che è la più grande della Cisgiordania palestinese, i tour dentro al conflitto sono organizzati dall'associazione di ex soldati israeliani Breaking the Silence e dagli studenti palestinesi di Youth Against Settlements. Ci uniamo a questi ultimi: il loro leader Issa Amro è stato incarcerato più volte, ma resta convinto del potere della non violenza.

Ci raduna all'imbocco di Al Muhawwel Street e, scendendo, mostra i campi chiusi da Israele a difesa della colonia di Kiryat Arba, tra le più antiche e fanatiche. A Hebron, sacra per il giudaismo perché qui c'è la tomba di Abramo, i coloni si sono spinti fino al centro urbano. «Puntano a occupare tutte le terre palestinesi per collegare Kiryat Arba al cuore della città» dice Issa. Incontriamo Ayat Jabari, una ragazza che per 12 anni ha vissuto con un insediamento ebraico nel giardino di casa: «Volevano il nostro terreno» spiega, voltandosi verso i resti di abitazioni di fortuna. «Abbiamo vinto in tribunale e finalmente l'esercito li ha cacciati».

Hebron ha una storia di odio e sangue, dal massacro di ebrei nel 1929 alla strage del 1994 in moschea per mano di un colono. Divisa in aree d'influenza, frastagliata da checkpoint, recinti e ogni genere di barriera, è cuore e paradigma del conflitto. A partire dalla Tomba di Abramo, frazionata in sinagoga e moschea: lungo il tragitto, le finestre dei palestinesi sono murate per la sicurezza dei coloni e una rete separa la porzione di strada destinata agli israeliani, ampia e asfaltata, dalla striscia sterrata per i palestinesi. I soldati sono parte del paesaggio: «Ne stimiamo 1500 aprotezione dei 600 coloni del centro» sostiene Issa, che parla di apartheid e di un'occupazione «che vuole mutare l'identità di Hebron. Noi palestinesi viviamo prigionieri: immaginate di uscire a comprare le sigarette e di dover camminare sui tetti perché le vie sono sbarrate».

Il suq, oltre un checkpoint soffocante, è surrealmente silenzioso e sovrastato da una rete metallica: «I coloni gettano spazzatura sul mercato. Qui l'economia è distrutta». Issa ha fretta di portarci nel luogo più emblematico: Shuhada Street. Era la principale via commerciale di Hebron: dal 200 o è vietata ai palestinesi per la tranquillità dei coloni di Beit Hadassah, che l'hanno ribattezzata David HaMelech Street. Dopo l'ennesimo checkpoint, camminiamo fin dove a Issa è permesso: una passeggiata resa sinistra dalle stelle di David tracciate con spray nero sulle porte serrate dei negozi arabi. Soldati, ragazzi che fanno jogging gridandoci "Welcome to Israel!".

Un giovane si avvicina e, guardando Issa, urla «Le sue sono solo bugie». Si chiama Yossi, ha 25 anni. Ci dice: «Crediamo in una lunga catena che unisce Abramo a noi. Qui non c'è occupazione: è casa nostra. La strada è chiusa perché i palestinesi ci attaccano». Qualcuno del nostro gruppo accenna all'illegalità delle colonie per la Convenzione di Ginevra. Yossi alza le spalle: «La Storia non si può cambiare: noi stiamo facendo la Storia». Se si potesse ritrarre l'essenza delI'incomunicabilità, sarebbe il fotogramma di questo momento.

Per inviare la propria opinione a Io Donna, telefonare 02/25841, oppure cliccare sulla e-mail sottostante 


iodonna@rcs.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT