Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 19/06/2015, a pag.25, con il titolo "Via gli insediamenti, solo così Israele può fermare il boicottaggio ", il commento di A.B.Yehoshua.
A.B.Yehoshua, da attento e sensibile osservatore della realtà mediorientale, descrive in profondità le dinamiche del boicottaggio che sta aggredendo in maniera sempre più violenta Israele. Lo descrive nei particolari, ricordandone i successivi passaggi storici. Tutto condivisibile. Dove però descrive quale dovrebbe essere la soluzione, l'abbandono di quei territori che chiama 'occupati' invece che contesi, rivela un aspetto comune non solo agli intellettuali - i quali confondono Hamas e Anp con la Svizzera- ma anche a politici del calibro di Ariel Sharon, il quale, come Yehoshua, riteneva che bastasse ritirarsi da Gaza per avere un vicino con cui convivere in pace.
Se Israele ripetesse lo stesso errore con Giudea e Samaria, sarebbe la fine dello Stato ebraico. Un futuro che Yehoshua è il primo a respingere. Il fallimento degli accordi di pace non è mai dipeso dai governi israeliani, i palestinesi, da Arafat in poi, hanno detto sempre NO, poco importa quale coalizione ci fosse a Gerusalemme.
Nelle ultime settimane ci troviamo di fronte a chiari segnali di sviluppo di un movimento di boicottaggio di merci israeliane provenienti dagli insediamenti della Cisgiordania (e talvolta anche da entro i confini della linea verde), alla revoca di accordi economici fra enti commerciali esteri e israeliani, alla cancellazione di visite di artisti, cantanti, registi e scrittori e a un costante e crescente movimento di protesta di organizzazioni studentesche e intellettuali di sinistra in Europa e negli Stati Uniti al quale, naturalmente, aderiscono palestinesi e arabi musulmani residenti in quei paesi. Israele, in un primo tempo, non ha preso sul serio questi segnali di boicottaggio. Dopo tutto già negli Anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, prima della guerra dei Sei Giorni, quando il giovane Stato ebraico era economicamente e politicamente debole, i Paesi arabi si coalizzarono per un suo boicottaggio, in particolare in campo economico. Tale tentativo però fallì, soprattutto a causa del mancato appoggio del mondo occidentale. La memoria della Shoah era ancora viva nella coscienza generale e Israele era giustamente considerato una democrazia che lottava per la propria sopravvivenza contro dittature arabe il cui potere economico non trovava riscontro nel livello di vita dei loro abitanti. Ma il boicottaggio che sta prendendo piede ora è di carattere completamente diverso ed è diretto a un Israele diverso. Sì, Israele è ancora «l’unica democrazia del Medio Oriente» ma la storia del XX secolo ci insegna che anche Paesi democratici possono conquistare territori e commettere gravi soprusi contro altre nazioni, come la Francia in Algeria o gli Stati Uniti in Vietnam e, più di recente, in Iraq. Il regime democratico di Israele non lo rende immune dal commettere ingiustizie nei confronti dei palestinesi o dal mantenerli per anni sotto occupazione militare e civile. Per questo nella comunità internazionale si va diffondendo l’attuale boicottaggio (un’iniziativa, per certi versi, simile a quella attuata a suo tempo contro il Sud Africa) con l’intenzione di costringere Israele a cambiare linea politica, ma soprattutto (ed è questa la cosa importante) a fermare l’espansione degli insediamenti nei territori destinati al futuro Stato palestinese.
Miliziani a Gaza. Arriveranno anche in Giudea e Samaria ?
Tra quanti boicottano Israele c’è anche chi è turbato e sconvolto dai nuovi movimenti islamici e dal caos in atto nel mondo arabo e riconosce con tristezza e un senso di frustrazione che, dopo l’evacuazione della Striscia di Gaza, Hamas non si è dedicato alla ricostruzione della Striscia e al benessere dei suoi abitanti, ma piuttosto a un massiccio acquisto di scorte militari e al conseguente lancio di missili sui centri abitati israeliani. Ed è pure consapevole che l’apartheid in Sud Africa era ben diverso dall’occupazione israeliana in Cisgiordania. I neri sudafricani non avevano nessuna intenzione di cacciare i bianchi, ma aspiravano ad avere pari diritti civili con loro. Il conflitto fra palestinesi e israeliani è invece molto più complesso e difficile perché molti palestinesi ancora non riconoscono il diritto all’esistenza di Israele. Le evidenti ingiustizie dello Stato ebraico nei confronti dei palestinesi non indignano dunque solo i tradizionali avversari di ebrei e israeliani, ma anche chi riconosce il loro diritto morale di esistere. La costante erosione dell’ormai scarso territorio palestinese (solo un quarto dell’originale) dovuta alla costruzione di insediamenti deve cessare anche secondo l’opinione di molti israeliani ed ebrei. Per questo il movimento di boicottaggio sta guadagnando forza anche se (come avviene in ogni movimento popolare di questo tipo) fra le sue file, oltre ai sostenitori dei diritti dei palestinesi, si infiltrano elementi antisemiti ed estremisti islamici che vogliono la distruzione di Israele. Il governo israeliano, ovviamente, sfrutta questo complicato intreccio di forze per condannare e respingere in blocco chiunque boicotti lo Stato ebraico e ha persino approvato una legge secondo la quale ogni cittadino israeliano che si dichiari favorevole al boicottaggio di un’istituzione o di un insediamento potrebbe incappare in sanzioni giudiziarie. Tutto questo non ha tuttavia impedito a diverse migliaia di israeliani di esprimere sostegno al boicottaggio degli insediamenti. Naturalmente è impossibile approvare la violenza di manifestanti che distruggono merci israeliane nei supermercati di tutta Europa. Non è nemmeno accettabile che artisti stranieri rilascino dichiarazioni contro l’esistenza di Israele. Ma, d’altro canto, è necessario che la comunità internazionale faccia pressione perché Israele fermi gli insediamenti nei territori palestinesi ancor prima di avviare complesse discussioni sui termini di un accordo di pace. Se i progrediti governi degli Stati europei vogliono che questi imbarazzanti movimenti popolari di boicottaggio spariscano, devono insistere perché l’espansione degli insediamenti cessi. Un simile passo potrebbe creare un clima positivo in vista di un’auspicabile ripresa dei negoziati e di una soluzione del conflitto che goda del consenso globale e del favore governo israeliano: quella di due Stati per due popoli.
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