Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 15/06/2015, a pag. 36-37, con il titolo " 'Così scelsi il Terzo Reich': le confessioni di Carl Schmitt", la recensione di Roberto Esposito.
Roberto Esposito Carl Schmitt
La copertina
«Perché ha partecipato al potere politico di Hitler?». Intorno a questa domanda – riformulata dall’interrogato in una forma che ne smussa la punta più acuta in “Perché ho partecipato al potere?” – si snodano le conversazioni di Carl Schmitt con Klaus Figge e Dieter Groh, trasmesse nel 1972 in una trasmissione radiofonica, poi edite in forma di libro da Frank Hertweck e Dimitrios Kisoudis, adesso tradotto da Quodlibet, a cura di Corrado Badocco, col titolo “Imperium”. Il testo dell’intervista è corredato da un formidabile apparato di note che ne fa quasi un’edizione critica. Comunque uno strumento indispensabile per gli studiosi del tema.
Quanto alle dichiarazioni di Schmitt, di cui quest’anno ricorre il trentennale della morte, non si può non restare colpiti dalla fittissima trama di ricordi, riferimenti culturali, colpi di teatro con cui un uomo di ottantatré anni riesce a costruire una sorta di corazza difensiva rispetto alla propria adesione al nazismo che alla metà degli anni Trenta lo rese uno dei protagonisti di quel fosco periodo. Lo strato più esterno di questa vera e propria tela di ragno tessuta dall’autore – che gli intervistatori cercano inutilmente di rompere stringendolo a una risposta da lui sempre differita – è costituita da una nutrita serie di rimandi autobiografici alla propria formazione intellettuale. Arrivato al “tramonto della vita”, quando il tempo comincia ad accartocciarsi su se stesso e i desideri ad affievolirsi, Schmitt non manca di ricordare che alla sua età uomini di Stato come Hindenburg, Clemenceau e De Gaulle ancora esercitavano ciò che gli uomini inseguono senza tregua. E alla cui tentazione anche egli stesso cedette: il potere, da qualsiasi fonte venga.
Ma prima di arrivare a tale conclusione, Schmitt ripercorre la propria vita, iniziata nel “nido” di Plettenberg, e proseguita con una rigida educazione cattolica in un Paese a maggioranza evangelica. Poi gli studi di giurisprudenza, avviati più per contingenza che per decisione, come, almeno a suo dire, gli accadde altre volte. Al punto di descriversi – lui che è considerato l’inventore del decisionismo politico – un eterno indeciso. Ma, certo, pronto a cogliere tutte le occasioni che gli si presentavano con la scaltra prontezza di un picaro. La ricostruzione degli eventi drammatici e concitati che portarono il 30 gennaio del ‘33 alla nomina di Hitler a Cancelliere del Reich e, il 24 marzo dello stesso anno, alla promulgazione della Legge che gli attribuiva i pieni poteri, costituisce il secondo strato della strategia del ragno.
In quelle circostanze, quando nell’indecisione degli ultimi rappresentanti della Repubblica di Weimar, Hitler si mostrò il più abile nell’adoperare gli istituti della legalità costituzionale al fine di abolirla, che altro avrebbe potuto fare un giurista come Schmitt se non seguire la legge – anche quella che di fatto cancellava ogni altra legge a favore di chi si proclamava il nuovo “custode della Costituzione”? Certo Schmitt era interno alla cerchia di Kurt von Schleicher – mal visto dai seguaci di Hitler. Da qui i suoi dissidi con il gruppo dirigente nazista che finì per emarginarlo. Ma il legame con Göring, da cui fu protetto, non vale certo ad attenuare le sue responsabilità. Come ha potuto, un uomo infinitamente superiore ai capi nazisti da un punto di vista intellettuale – come egli stesso rivendicò negli interrogatori di Norimberga – legittimare coloro che spezzavano nel modo più rozzo il complesso rapporto tra legittimità e legalità che egli stesso aveva teorizzato nei suoi libri?
Non basta certo dire, come fa alla fine del colloquio, che non fu egli, ma Hitler a decidere. O anche, con un motto di timbro situazionista, che, nella vita, prima “uno s’impegna, poi si vede”. Per trovare la vera risposta del vecchio di Plettenberg, che ne testimonia al contempo la raffinatezza culturale e l’ambiguità etica, bisogna scendere più a fondo nelle sue argomentazioni, fino a raggiungere il terzo livello della sua memoria difensiva. Si tratta della sua filosofia della storia – lontana mille miglia dall’idea illuminista che gli eventi procedano linearmente verso un esito progressivo. «Però questa idea americana – sbotta ad un tratto – questa idea di progresso». Quella che egli contesta è l’idea che la storia umana sia decisa dalla tecnica, quando invece gli effetti della tecnica dipendono dall’intenzione politica di coloro che la padroneggiano. Contro quella concezione progressista, Schmitt si richiama a Sant’Agostino.
Dietro la storia che appare in superficie vi è una trama più profonda, teologico- politica, in base alla quale uomini di età diverse si trovano davanti allo stesso problema, che è quello, metafisico, della scelta finale tra ordine e caos. È lì che prende forma l’enigmatica teoria del ketechon , del potere che frena l’apocalisse imminente, cui Paolo aveva alluso nelle sue Lettere. Certo, allora i cristiani attendevano il salto nel Regno della Libertà, non diversamente dai rivoluzionari marxisti, ai quali Schmitt continua a strizzare l’occhio, spesso ricambiato. Ma già Trotskij avvertiva che per quel salto non bastavano un paio di minuti – poteva volerci un’intera epoca. E intanto, prima che il Bene esploda, chi blocca il male assoluto del conflitto di tutti contro tutti? Davanti al rischio della dissoluzione gli uomini hanno sempre scelto l’ imperium – il potere che protegge dalle forze del niente. Qualunque sia «l’imperator che di volta in volta regna ». Questa, tra mille funambolismi, è l’autentica risposta di Schmitt sulla sua sciagurata decisione di partecipare al potere di Hitler.
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