Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 15/06/2015, a pag. 10-11, con il titolo "Nel Marocco degli imam che sfidano gli islamisti", il reportage di Maurizio Molinari.
Maurizio Molinari
Rabat
Oltre un cancello biancoverde in fondo all’Avenue Mohammed El Jazuli, nel quartiere di Al Irfane, sorge la prima accademia araba per la formazione di imam anti-jihadisti. A volerla è stato Mohammed VI, sovrano del Marocco discendente di Fatima, la figlia del Profeta Maometto, e a guidarla è un imam di 69 anni, dalla voce tenue e la determinazione ferrea. Jalabya bianca, sandali di pelle beige e fez rosso, Abdesselam Lazaar è il direttore dell’«Istituto per la formazione degli imam», inaugurato lo scorso marzo, e ci accoglie nel cortile affollato da centinaia di alunni.
«Vengono dall’Africa subsahariana, dal Marocco e della Francia - spiega - per apprendere l’Islam e portarlo nei loro Paesi, al fine di sconfiggere, sradicare, le bugie orrende e la violenza che alimenta Isis, Al Qaeda e gli altri gruppi jihadisti». Gli studenti hanno i profili più differenti: il più giovane ha 20 anni e il più anziano 69, l’80 per cento sono uomini e il resto donne destinate a essere «predicatrici», c’è chi arriva dalle scuole islamiche, chi dagli atenei umanistici e chi viene inviato dai rispettivi governi. In totale, oltre 800 anime.
È uno spaccato del mondo arabo anti-jihadista. L’idea della «formazione degli imam» venne a Mohammed VI nel 2013, sulla scia delle devastazioni della guerra civile siriana, e la scelta di affidarla a Lazaar nasce dal suo retroterra: per 25 anni ha formato, sempre qui a Rabat, gli imam del Mali. «L’Africa subsahariana è la frontiera più importante dove fermare i jihadisti» sottolinea, accompagnandoci a visitare le classi. In quella di Corano, l’insegnante spiega le sure sulla tolleranza nei confronti dei «popoli del libro», in quella sugli insegnamenti di Maometto la discussione è sull’imperativo di «non uccidere il prossimo, se non in una guerra legale».
Rabat
Influenze dei sufi
Sono aule universitarie, con centinaia di studenti, uomini divisi dalle donne. Fanno domande, dibattono. Poi ci sono le aule di cultura umanistica, dove si studia Storia, Cultura contemporanea e infine, nel piano sotterraneo, la palestra con attrezzi e tapis roulant, la sala per imparare a cucire a macchina (solo per donne) e gli spazi per lo sport. «Un imam deve essere aperto ai credenti ma deve anche conoscere la cultura generale e deve essere a posto con se stesso, a cominciare dal proprio corpo» aggiunge Lazaar, secondo il quale «il jihadismo è un virus, una malattia, che nasce dalla scelta della violenza da parte di individui che prima di odiare il prossimo odiano se stessi, ciò che sono».
«Per questo l’antidoto è la conoscenza dell’Islam» sottolinea Mohammed Mraizika, segretario generale dell’Unione delle moschee di Francia, che seleziona e segue molti dei futuri imam. «Se questa scuola si trova a Rabat non è un caso - spiega Mraizika - perché l’Islam marocchino è di scuola giuridica malakita, spiritualità sufi e liturgia asharita» ovvero una combinazione «che porta alla flessibilità ed alla tolleranza». In particolare «la duttilità del sufismo è all’opposto dell’intolleranza dei salafiti» e questo spiega perché i miliziani di Isis - che qui tutti chiamano Daesh, l’acronimo arabo - in Iraq e Siria distruggono ogni santuario sufi.
Mai sottomessi ai turchi
Uscire da qui con l’attestato di «laurea da imam» significa andare nelle moschee a predicare contro «il falso Califfo nemico dei musulmani». Gli studenti provengono in gran parte da Mali, Guinea Conakry, Costa d’Avorio, Marocco e Tunisia ma vi sono anche 22 francesi - incluse 2 donne - e per sapere come vivono la loro missione ne incontriamo alcuni. Amina, coperta da un chador celeste, viene dalla Guinea Conakry, e parla della necessità di «far sapere che Maometto non incita alla violenza». Ahmadi, marocchino di Fez, ha studiato nell’università di Qarawiyyn - roccaforte dell’Islam malakita - e sottolinea come «per noi è centrale il ruolo del re del Marocco, Amir el-Maamunim» ovvero principe dei credenti.
Il riferimento è alla particolarità dell’Islam marocchino: i discendenti di Fatima crearono il regno di Sharif che non venne invaso dai turchi e dunque il Califfato ottomano del passato non ha mai raggiunto queste terre, dove il sovrano ha garantito lo sviluppo di una fede non contagiata da altre influenze, giuridiche o politiche. E ancora oggi il «Principe dei Credenti» è alla guida degli ulema, i saggi della fede, creando un equilibrio di poteri che tutela tutti i «credenti», non solo i musulmani ma anche ebrei e cristiani.
Nuova Costituzione
Mohammed VI ha voluto rafforzare tale aspetto dottrinale con la nuova Costituzione, approvata nel 2011, che definisce l’identità marocchina come una somma di «arabi, berberi, ebrei e andalusi». Ali, trentenne di Abijan, freme dal desiderio di «tornare in Costa d’Avorio per parlare nelle moschee contro il falso Califfo» e Al Uaifi, francese di Orléans, parla di «Islam erede dell’Andalusia, tollerante e integrato con le altre fedi per promuovere scienza e umanità, vivendo assieme, con tutti».
Ascoltare questi imam anti-jihadisti significa conoscere i messaggi che si propongono come antidoto ai jihadisti che incombono sul Marocco per la presenza di Al Qaeda in Algeria e nel sub-Sahara come di Isis, tanto in Libia che Tunisia. A tre ore di auto di distanza, seduto nel club «Simon Pinto» di Casablanca, il presidente delle Comunità israelitica del Marocco, Serge Berdugo, aggiunge altri tasselli al modello di Islam marocchino: «Amir al-Maamunim è il garante della tolleranza, spiega perché il nonno dell’attuale re Mohammed V salvò gli ebrei dalle persecuzioni di Vichy, perché il padre Hassan II era molto legato a Shimon Peres e perché lui, Mohammed VI, negli ultimi anni voluto restaurare tutte le sinagoghe del Paese, oltre 20 mila tombe ebraiche, e insignire il Gran Rabbino d’Israele con la massima onorificenza civile».
E poi ci sono le storie meno note, come quanto fatto da Mohammed VI a favore degli ebrei venezuelani solo pochi anni fa: «Con Hugo Chavez la situazione era diventata pesante, molti di loro sono di origine marocchina e così gli abbiamo fatto avere i passaporti, in base alla legge nazionale secondo cui la cittadinanza non si perde mai». Almeno 9 mila ebrei venezuelani su 40 mila ne hanno ricevuti. «C’è stato un periodo in cui gliene consegnavamo 200 alla settimana» ricorda Berdigou, con appuntati sulla giacca i colori nazionali. Nel vicino museo ebraico il paragrafo sulla multietnicità nazionale della nuova Costituzione è inciso nel marmo, all’entrata. «È un’eccezione che nasce dal fatto che qui il Califfato non c’è mai stato perché i turchi si fermarono in Algeria» aggiunge Bendigou, riferendosi all’«assenza del contagio jihadista» che viene dall’ideologia dei Fratelli Musulmani che, sin dal 1928, si propone di ricostituirlo: «È una vicenda che non riguarda questa nazione».
Il muro nel Sahara
Ma non è tutto perché a 1500 km di distanza, nel Sahara Occidentale, il governo ha costruito il «Berm» ovvero un vallo di 2700 km per difendersi dalle infiltrazioni jihadiste. La città più vicina a questa frontiera artificiale, fatta di muri di sabbia e sensori elettronici, è Dakhla il cui «Wali» - una sorta di super-prefetto - Lamine Benomar definisce i «nemici» adoperando termini come «jihadi-gangster» e «revolution-gangster», ovvero i miliziani di Al Qaeda e i guerriglieri del Fronte Polisario. «Tentano in continuazione di penetrare, ma non li faremo arrivare all’Atlantico - assicura, seduto nel suo ufficio con il ritratto del re alle spalle - così come non lo abbiamo consentito a sovietici e comunisti durante la Guerra Fredda, allora come oggi è qui nel Sahara che il Marocco protegge l’Occidente».
È una difesa militare che vede oltre 40 mila uomini armati, con un posto di controllo ogni 5 chilometri, lungo l’intero vallo terrestre, affiancati da unità della Marina che pattugliano il mare. «Come avviene in California con i narcos messicani e in Israele con Gaza, anche qui i gangster tentano di sfruttare il mare per infiltrarsi» aggiunge il «Wali», indicando le navi militari attraccate poco distante dal porto industriale dei pescatori di sardine vendute in tutto il mondo.
I comandanti delle unità anti-terrorismo che perlustrano il deserto presentano al «Wali» i rapporti su una guerra quotidiana che lui riassume così: «Sfruttano le rotte del traffico di sigarette per far passare droga e, ora che la Libia è una porta all’Europa, anche clandestini e armi, è un fiume di illegalità nel quale si celano i jihadi-gangster. Gli diamo una caccia senza tregua». Ricorrendo a trappole nel deserto come il percorso del vallo suggerisce: è costruito 3 chilometri all’interno dei confini nazionali per far avanzare il nemico, bloccargli ogni via di fuga e catturarlo vivo “per sapere tutto di lui e di chi lo ha mandato».
Pomodori del deserto
Sidi Ahmed Bekkar, presidente del Consiglio provinciale di Ued Eddahab, a cui Dakhla appartiene, parla di «impegno per creare un argine in Africa contro il Califfo impostore» e al tempo stesso per «far fiorire il deserto grazie all’agricoltura» testimoniata dalle coltivazione di pomodori piccoli come fragole. «Crescono solo qui e in Israele» conclude Boussif El Mami, presidente della Regione di Dakhla, convinto che «scienza, tolleranza e amore per la vita» fermeranno i jihadisti sui confini del Marocco «proprio come avvenne con i turchi».
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