Amos Gitai
Mai come nell'opera cinematografica di Amos Gitai è stata dimostrata le veridicità del detto " l'inferno è lastricato di buone intenzioni". Di quell'inferno Gitai è sicuramente uno dei maggiori fornitori. Regista, poeta, narratore, ha discettato un po' di tutto ma esagerando nell'additivo noia. I suoi film sono tra i più invedibili, non tanto perchè non si condividano i messaggi ideologici di per sè noiosissimi come tutti i messaggi - quanto per l'incapacità del nostro di fare il mestiere di regista.
Trasferitosi a Parigi, dopo che in Israele non riceveva nessuna attenzione, nemmeno sulla stampa più benevola, ignorato dal pubblico che evitava con cura di vedere i suoi film, ci ha provato anche con la letteratura, con eguali risultati.
Gode di stima all'estero, unicamente per essere un critico totale di Israele, i suoi film vengono doppiati e distribuiti, anche se poi nessuno va a vederli, idem i libri, trovano subito un editore, anche se poi non vengono venduti.
Adesso sta preparando un film su Itzak Rabin, ne siamo alquanto dispiaciuti, soprattutto per la memoria dell'ex primo ministro israeliano, la cui storia avrebbe meritato ben altro narratore.
E' spesso invitato a rassegne culturali, dove -nei dibattiti (che Dio ce ne scampi!) - dà il meglio di sè.
Lo intervista oggi, 14/06/2015, sulla STAMPA, a pag.29, Fulvia Caprara, con il titolo "Gitai: un film su Rabin perchè la pace resti un sogno possibile"
Fulvia Caprara
Cinema e poesia, dice Amos Gitai, nato nel ’50 a Haifa da un architetto ucraino del Bauhaus e da un’insegnante di teologia ebraica studiosa di psicanalisi, non sono poi così distanti. Anzi, hanno molto in comune, soprattutto la «capacità di creare libere associazioni che, accostando linguaggi differenti, riescono a farci passare facilmente da un’emozione all’altra». I suoi film, da Kadosh a Kippur, da Free Zone a Ana Arabia, insieme realistici e onirici, politici e filosofici (celebrati in questi giorni nell’ampia retrospettiva della manifestazione «Poevisioni» a Genova) hanno sempre raggiunto l’obiettivo, muovendo sentimenti che aprono il confronto, ponendo interrogativi che stimolano la discussione.
Che impressione le fa sapere che saranno rivisti i suoi vecchi film, legati a epoche storiche e sociali diverse?
«Mi fa piacere, penso soprattutto a Esther, il mio primo lungometraggio, che era basato sul testo biblico e che io amo molto. Penso che, oggi più che mai, sia importante guardare indietro, per cercare di capire meglio il presente. La Bibbia può essere riletta come metafora della nostra attualità. Se restiamo bloccati, chiusi nel presente, non abbiamo nessuna speranza di progredire».
L’escalation di violenza legata all’espandersi dell’Isis fa pensare al peggio... «Certo, il momento è molto triste, ma essere pessimisti significa diventare immobili. L’ottimismo è invece l’unico modo per reagire e andare avanti».
Infatti lei sta preparando un nuovo, importante film.
«Stiamo finendo il missaggio. È la storia dell’assassinio, avvenuto esattamente 20 anni fa, del premier Yitzhak Rabin, il titolo è Rabin the last date. Pensare oggi al suo progetto di riconciliazione contrasta terribilmente con la cronaca che ci circonda, ma, proprio per questo, è stato importante fare il film, anche per ricordare che c’è stato un tempo in cui si pensava che i conflitti potessero comporsi».
Parteciperà al dibattito intitolato «Il cinema come strumento di pace». È tuttora convinto che il cinema possa realmente migliorare la realtà?
«Sì, credo che i film possano riuscire a veicolare idee, anzi, mi preoccupa il fatto che buona parte del cinema contemporaneo stia virando verso la leggerezza più totale. E invece bisogna usarlo in un’altra maniera, per spingere la gente a riflettere».
In molti dei suoi lavori c’è un intreccio originale di piani realistici e fantastici, succederà anche in «Rabin the last date»?
«Non voglio parlare troppo del nuovo film, comunque assolutamente sì, anche stavolta ci sarà quel tipo di mescolanza».
La rassegna di cui è ospite è dedicata alla poesia, quali sono i suoi autori preferiti?
«Mi piacciono molto alcuni anglosassoni, come William Butler Yeats e Waltl Withman , ma apprezzo anche un nutrito gruppo di scrittori mediorientali ».
Anche lei ha scritto un libro, «Monte Carmelo», in cui rievoca la sua storia personale intrecciandola con quella del popolo ebraico e del conflitto arabo-israeliano.
«Sì, e credo che in questi giorni se ne parlerà, nel libro ci sono anche lettere di mia madre».
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