Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 11/06/2015, a pag. 24-25, con il titolo " 'Il passato è ritornato': il genocidio degli armeni rischia di ripetersi", il reportage di Gian Micalessin.
Gian Micalessin
Quello che resta di un villaggio armeno e dei suoi abitanti dopo la pulizia etnica voluta dalla Turchia nel 1915
«Pensate sia diverso? Pensate veramente che cent'anni facciano la differenza? No, non è così. Per loro, per i turchi, per i loro amici terroristi quel secolo non è mai passato. È stata solo una parentesi. E ora sono pronti a massacrarci di nuovo. Guardate cos'hanno fatto a questa città e questo quartiere armeno. Guardate come ci costringono a vivere. Le poche volte che esco di casa, ogni volta che m'affaccio tra queste rovine mi tornano alla mente i ricordi di mio padre. E mi chiedo “in cent'anni cos'è cambiato?».
Cent'anni fa Hazar Kazaryan non era neppure nato. Allora i suoi non erano neppure qui. Allora era l'agosto del 1915 e suo padre Harud e i suoi 4 fratelli erano barricati tra gli edifici di pietra della cittadella di Urfa. Trecento chilometri a nordest da Aleppo. Oltre una frontiera turca che cent'anni fa non esisteva. «Intorno - racconta l'anziano armeno - c'erano i cannoni e i cecchini dell'esercito ottomano. Dentro il fetore dell'assedio, i lamenti dei feriti, le urla delle donne, il pianto dei bimbi». Hazar ti batte sulla mano, afferra il bastone, ti spinge verso il corridoio di casa. Un po' cammina, un po' si perde nei propri ricordi. Ha 82 anni, tira la gamba, ma la memoria si dipana lucida. Distinta. Scolpita nel cuore. Incisa nella mente. Ravvivata dagli avvenimenti degli ultimi due anni.
Terroristi dello Stato Islamico
«Guarda, questa è Aleppo, la mia città. E questo è Maidan, il quartiere di noi armeni. In due anni sono diventati come Urfa, come la città di mio padre». Hazar s'infila nel buio, apre la porta di una stanza dimenticata. Ormai quasi segreta. Un odore di muffa e umido t'investe. La finestra è un muro sbrecciato, un chiaroscuro di brecce e feritoie. «Non c'entro mai. L'ho murata due anni fa perché i cecchini avevano incominciato a spararci dentro. Ma quando vengo qui e sbircio da quella fessura non vedo più la mia Maidan, non vedo più le case distrutte di Bustan Pascià... là, in fondo. Non vedo la nostra chiesa di Kivork bruciata dagli islamisti. No, io da qui rivedo il passato della mia famiglia, del mio popolo. Rivedo la città di mio padre. Rivedo Urfa e l'assedio degli armeni. Rivivo l'assedio di ieri e di oggi». L'indice ricurvo di Hazar s'infila nella feritoia, mostra i negozi sventrati, i palazzi crollati, i muri crivellati di colpi appena oltre la finestra. Per Hazar quelle immagini sono la macchina del tempo. E del ricordo.
«A Urfa nell'agosto 1915 succede la stessa cosa. Mio padre lo raccontava sempre. In Cilicia iniziano l'esodo forzato, le uccisioni, le persecuzioni. E a Urfa arrivano le colonne dei sopravvissuti. Sono affamati, assetati. Sono partiti in decine di migliaia, ma arrivano in pochi. Muoiono per strada consumati dagli stenti, abbattuti dai soldati turchi. «In quei giorni - raccontava mio padre - capiamo che presto sarebbe toccato a noi». Hazar ora si ferma, fa un salto di un secolo. «Nel 2012 succede anche qui ad Aleppo. Dai villaggi arriva la gente in fuga dai ribelli e noi capiamo che i turchi - o almeno i loro amici - stanno tornando».
Poi la mente di Hazar torna ai racconti paterni. «Gli armeni di Urfa fanno quello che stiamo facendo noi di Aleppo 100 anni dopo. Decidono di resistere. I giovani della città prendono le armi, fuggono sui monti. Ma serve a poco. L'esercito turco in pochi giorni li fa fuori tutti. La famiglia di mio padre lo capisce quando alla porta di casa si presenta un amico sopravvissuto alla battaglia. Lui e i suoi compagni si sono arresi, ma i turchi li hanno portati sul ciglio di un dirupo, trapassati a colpi di baionetta. Chi non muore per i colpi muore precipitando. Lui è sopravvissuto grazie ai corpi dei compagni. Il giorno dopo le famiglie di Urfa si barricano nella cittadella armena, dentro i palazzi antichi, dietro le mura che nessuna pallottola può scalfire. Il 23 settembre 1915 i turchi tentano di entrare, ma cadono sotto i colpi dei cecchini. E a ogni morto la loro rabbia aumenta. Potrebbero facilmente prendere gli armeni per fame - mio padre lo ripeteva sempre - ma non si accontentano. Puntano l'artiglieria sulla cittadella, la bersagliano per giorni. Dentro è un inferno di sangue e terrore. Molti si suicidano con proprie famiglie pur di non arrendersi. Il 29 ottobre, dopo la resa, mio nonno e gli altri uomini vengono impiccati sulla piazza. Mio padre, i suoi quattro fratelli, sua madre e mia nonna si ritrovano prigionieri assieme a centinaia di altre donne e bimbi nel Caravanserraglio all'entrata della città. I turchi non gli danno neppure da mangiare. Mio padre ricordava quei giorni della propria infanzia vissuti tra il terrore della guerra, l'orrore dei cadaveri, il tanfo, le malattie la sporcizia e la fame. Mentre donne e bimbi muoiono come mosche».
Ora Hazar torna al presente. Indica il campanile semidiroccato della chiesa di Kivork, il simbolo del nuovo martirio armeno. Sbirci dalla feritoia. Gli ultimi due incroci prima della chiesa sono terra di nessuno. Lì si combatte la nuova guerra tra i cristiani di Aleppo e i ribelli arrivati dalla Turchia. La facciata della chiesa è al di là di un muro abbattuto, circondata da macerie e calcinacci. Dentro, oltre il portale bruciato, c'è un altare distrutto a colpi di bombe. «A Urfa cent'anni fa fecero lo stesso, rasero al suolo tutte le nostre chiese. Per questo i racconti di mio padre non sono più memoria, sono la nuova realtà. Per questo a 82 anni suonati mi sforzo d'immaginare anche il seguito. Anche l'orrore che verrà».
Lo guardi sorpreso. Hazar sorride. «Non sai come andò a finire? Il martirio di Urfa non finisce con le forche sulla piazza, non si esaurisce nel caravanserraglio dove violentano le nostre donne e affamano i nostri bimbi. Finisce sulla strada per Raqqa e per Deir El Zoor. Negli stessi posti dove oggi regna lo Stato islamico cento anni fa venivano sterminati quattro fratelli di mio padre e quel che restava della mia famiglia. Inizia a novembre 1915 quando i turchi ordinano alle donne armene e agli altri sopravvissuti di abbandonare Urfa e marciare verso Raqqa. Camminano per nove giorni nel deserto e mio padre perde quattro suoi fratelli. Chi sopravvive spera di venir lasciato libero. Non sa che a Raqqa lo attende una città trasformata in un enorme campo di concentramento. A ripensarci oggi mi vengono i brividi. Vorrei proprio sapere se lo Stato islamico l'ha trasformata per caso nella capitale siriana del Califfato...».
Ma non finisce qui. «Un mese dopo arriva l'ordine di portarli ancora più lontano, di raggiungere la destinazione finale. E così dopo una settimana di cammino entrano a Deir El Zoor, vengono fatti accampare in mezzo al deserto e lasciati lì a morire. Mentre l'Europa e il mondo se ne stanno a guardare. Oggi sono passati cento anni, ma intanto chi regna a Deir El Zoor mentre voi europei continuate a fingere di non vedere? Regnano quelli dello Stato islamico. Il loro primo atto appena entrati in città è stata la distruzione del memoriale del genocidio armeno. È successo a settembre. Da allora noi armeni di Siria viviamo nella paura perché sappiamo che il passato è ritornato, ma il mondo continua a guardare senza voler vedere».
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