La premessa minore di una brutta sentenza
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
A destra: Obama: "Devi ridisegnare i confini con i palestinesi"
Netanyahu: "Solo se tu fai lo stesso con il Messico"
Cari amici,
c'è una piccola storia di cui vorrei parlarvi. Storia piccola, perché riguarda un individuo solo, in prima istanza e storia anche un po' tecnica, dato che si tratta di un caso giudiziario intricato. Ma storia anche molto significativa per i temi intorno a cui ci incontriamo, prima di tutto il futuro di Israele. Così significativa, che in realtà non ve ne parlo, ma ne riparlo e per la terza volta, avendolo già fatto quasi cinque anni fa (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=42286) e poi di nuovo l'anno scorso (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=56040).
La storia è quella di un bambino, Menachem Binyamin Zivotofsky, nato il 17 ottobre 2002 a Gerusalemme da genitori ebrei, immigrati americani. Come capita in questi casi anche questi nuovi israeliani avevano il diritto di conservare la cittadinanza americana e di trasmetterla al loro figlio e l'hanno fatto. Appena è stato possibile i genitori hanno registrato il figlio al consolato americano e hanno chiesto per lui un passaporto. Che gli è stato dato, bello, blu con quel buffo disegno in copertina (un'aquila con due colombe sopra le ali spiegate, un tondo con tredici stelle in una specie di aureola sotto la freccia e nelle mani - le mani di un'aquila? sì le mani, che ci volete fare lamentatevi con chi ha disegnato lo stemma americano, del resto Torino si fregia di un Toro rampante, quasi altrettanto improbabile - e nelle mani un un manipolo di grano e un fascio di frecce).
Il Muro occidentale - o Muro del pianto - a Gerusalemme
Tutto bene, dunque? Sì, salvo per un particolare, che come luogo di nascita era indicato semplicemente Jerusalem, senza indicazione di stato. Se un cittadino americano è nato a Roma, si trova scritto Rome, Italy; se è nato a Parigi, vede Paris, France. Il bravo Menachem aveva solo Jerusalem. I genitori hanno pensato che fosse un'ingiustizia e hanno protestato. Al consolato hanno detto che facevano così con tutti, poiché quella era la politica del Dipartimento di Stato. I signori Zivotofski, ben documentati, hanno obiettato che il Congresso aveva appena approvato e il Presidente firmato una legge, il Foreign Relations Authorization Act, che al paragrafo 214 prevedeva esattamente il loro caso, dando loro il diritto di veder scritto “Jerusalem, Israel” sul passaporto del figlio, ma il consolato confermò il suo rifiuto. Ai Zivotovski non restava altra strada se non accettare la decisione o rivolgersi ai tribunali. Avendo tempo e soldi, i nostri immigrati seguirono la seconda strada. E il processo, seguendo un ritmo fiacco un po' italiano, percorse tutte le tappe del sistema giudiziario americano, fino ad approdare l'anno scorso alla Corte suprema. La quale ha emesso ieri la sentenza, dando torto ai ricorrenti col punteggio di 6 a 3 (http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4666261,00.html).
Se siete appassionati ai legal thriller, o comunque vi interessano i dettagli della sentenza, ne trovati alcuni qui (http://edition.cnn.com/2015/06/08/politics/zivotofsky-supreme-court-jerusalem-passport/): i nomi dei giudici, gli argomenti legali, i pareri dissenzienti e così via. Gli americani sono soprattutto colpiti dal fatto che in una importante partita fra Presidente e Congresso, la Corte Suprema ha dato ragione al primo, lasciandogli un tale monopolio nella politica estera da permettergli di ignorare una legge perfettamente in vigore. In nessun altro paese democratico è concepibile qualcosa del genere, ma evidentemente questa è la conseguenza della costituzione Usa, almeno nell'interpretazione autentica dei giudici supremi.
Pensando a che cosa potrebbe fare Obama di questo principio, la sentenza mi preoccupa, ma il punto principale per me è un altro, esattamente la premessa minore del ragionamento dei giudici. Esso si può formulare così. Premessa maggiore: il riconoscimento degli stati è compito esclusivo del Presidente, come altri aspetti di politica estera. Premessa minore: dalla fondazione dello Stato di Israele, i presidenti americani non hanno mai riconosciuto l'appartenenza a Israele (né ad altri stati) di Gerusalemme. Avendo la conseguenza di registrare sul passaporto il luogo di nascita di Menachen Binyamin come “Gerusalemme, Israele”, la legge viola questa competenza costituzionale e dunque è nulla. Le obiezioni nelle “dissenting opinions” dei giudici di minoranza riguardano il dubbio che scrivere una cosa su un passaporto costituisca un riconoscimento legale. Ma non è questo il punto che ci interessa.
Gli Stati Uniti dunque non solo non riconoscono Gerusalemme come capitale di Israele; non la riconoscono come parte di Israele. Da sessantasette anni. Tutta Gerusalemme, non solo quella mitica “Gerusalemme Est” (compresa la città vecchia) che vorrebbero far regalare all'Autorità Palestinese. Anche “Gerusalemme Ovest” non è parte di Israele, perché il piccolo Zivotovski è nato in un ospedale dell' ”Ovest”. Questo è il punto messo in evidenza dalla sentenza. Gli Stati Uniti non riconoscono la linea verde (che chiamano impropriamente confini del '67) come delimitazione di zone sicuramente israeliane. Tutto quel che è al di là è per loro “palestinese”; ma quel che è al di qua non è detto sia israeliano.
Questa posizione ha conseguenze importantissime e molto preoccupanti - che dovrebbero almeno essere importantissime e allarmanti per coloro che si illudono che esista una ”Israele vera e propria” la cui sovranità non è discussa e poi dei “territori palestinesi occupati”, da “rendere” per vivere finalmente in pace. Nossignori, non è così. La comunità internazionale guidata dagli Stati Uniti ha dubbi anche sull'Israele vera e propria, forse nasconde il pensiero che i confini giusti non siano quelli “del '67”, ma quelli proposti nel 1947 dall'Assemblea Generale dell'Onu, mai accettati dai paesi arabi e poi cancellati di fatto dalla guerra. In effetti l'Autorità Palestinese ha già iniziato a richiederli e non vi è dubbio che questa sarebbe la seconda tappa di un'eventuale trattativa partita, come vorrebbero Abbas, Obama e i francesi, dal riconoscimento della “Palestina” entro “i confini del '67”. Inutile dire che la terza tappa, quella che finalmente soddisferebbe gli arabi stabilirebbe il confine... sulla linea di costa. Potrebbero chiamarli confini del 1914, quando Israele era colonizzato dai turchi, che naturalmente non erano “palestinesi” e neanche arabi, ma erano musulmani. Del resto che Gerusalemme debba essere “nostra” e cioè non solo islamica, ma di nuovo turca è quel che pensa e dice esplicitamente Erdogan. E gli ebrei? All'inferno, come diceva una certa strega che di mestiere faceva la corrispondente dalla Casa Bianca e che per fortuna è morta da qualche mese.
Non ci riusciranno, naturalmente. Ma bisogna sapere che questo è ciò che vogliono i palestinisti (tanto Hamas quanto l'Autorità Palestinese, cioè Fatah), e che Obama nei fatti sostiene. Anche perché è questo che starebbe sullo sfondo delle trattative come le concepiscono i palestinisti, l'Europa e Obama. Ed è da questo che Israele si deve difendere (oltre che dai terroristi, da Hamas, Hezbollah, Isis, Fatah e chi più ne ha più ne metta).
Ugo Volli