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La Stampa Rassegna Stampa
04.06.2015 Sapori e profumi di piatti e vini della terra d'Israele
Analisi di Federico F. Ferrero, Roberto Fiori

Testata: La Stampa
Data: 04 giugno 2015
Pagina: 26
Autore: Federico Francesco Ferrero - Roberto Fiori
Titolo: «Gerusalemme, i sapori che uniscono arabi e israeliani - Dal Golan al Negev è questa la culla della cultura del vino»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 04/06/2015, a pag. 26-27, con il titolo "Gerusalemme, i sapori che uniscono arabi e israeliani", l'analisi di Federico Francesco Ferrero; con il titolo "Dal Golan al Negev è questa la culla della cultura del vino", l'analisi di Roberto Fiori.

Ecco gli articoli:

Federico Francesco Ferrero: "Gerusalemme, i sapori che uniscono arabi e israeliani"

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Nel suk di Gerusalemme

C’è un profumo nella Terra di Israele. L’ho annusato tra la gente, nelle case, nei mercati, nei caffè, nelle discoteche, nei ristoranti, sulle spiagge. E’ il profumo del futuro, della prospettiva, della realizzazione di un alleanza tra il sé, l’altro, gli altri. E forse anche con Dio o con la propria coscienza o come vogliamo chiamare qualsiasi monoteismo. La vecchia Europa non ha più odore. Sapeva di concime, pane fresco e naftalina e oggi non sa nemmeno più di detersivo. Capisco ora cosa «sentano» molti giovani ebrei che tornano nella Terra Promessa e che trovano in Israele una spinta prospettica che nell’Antico Mondo sembra negata o congelata. Quella che li entusiasma non è una vita presa in prestito dalle generazioni precedenti, ma un mondo nuovo, declinato al futuro, per cui ancora può valer la pena di rischiare le proprie certezze. Questa è infatti una terra in guerra, che miscela l’odore del sangue ai profumi del cibo.

Il mercato
Se si è curiosi basta percorrere a naso all’aria la via centrale del mercato Suk ha Karmel, a Tel Aviv. Presto ci si ritroverà nel Kerem ha Teimanim, il quartiere degli ebrei yemeniti. Nelle case trasformate in piccoli ristorantini, si può assaggiare ciò che mangiano ogni mattina gli operai, i mercatali, gli anziani, i poveri. Il leggerissimo pane lahuh accompagna le uova fritte, unite a una salsa piccante e precedute da un piatto fumante di zuppa di legumi. E’ dove stanno i poveri che sta il cibo. E il cibo povero ha bisogno di spezie. Il sentore unico dello za’atar fresco, ottenuto macinando insieme origano selvatico, sommacco e semi di sesamo, arriva fortissimo dalle bancarelle dei mercanti, che l’hanno portato fin qui dal Libano, geograficamente vicinissimo ma politicamente irraggiungibile.

I gusti
Nella città vecchia di Gerusalemme, nel dedalo delle vie buie del mercato, ci sono gli stessi profumi. Le matrone arabe siedono a terra e offrono i cespugli aromatici, le foglie di vite e i datteri freschi delle oasi. A metà mattina si radunano tra donne nei ristorantini bui del mercato e gustano una lunga serie di piccoli antipasti a base di ceci e melanzane, verdure fermentate, hummus e pita. Sono i piatti della koinè gastronomica ottomana che, nei quattrocento anni di floridità dell’impero, ha omologato i palati di tutta l’Europa dell’Est, di mezzo Mediterraneo, e della maggior parte dei Paesi mediorientali, Gerusalemme compresa.

Il passato
Nei mercati di tutto il Paese si riconosce inoltre il profumo di farina tostata che sale dalle bancarelle delle donne druse, discendenti di un’antica religione iniziatica medievale, che miscela principi del Talmud, del Nuovo Testamento e del Corano. Le loro focacce non lievitate sono soavi, sottili, farcite con prezzemolo fresco, sesamo, yogurt e limone candito, e mettono d’accordo i palati di tre culture. Questi sono profumi che uniscono e che permettono di capirsi. E sono quelli che, prima che spariscano del tutto, ci parlano e ci parleranno sempre della terra da cui veniamo, e verso la quale vogliano sempre tornare. Il vino dolce del Golan, la piadina drusa, la carpa arrostita, i fichi, il miele e l’origano selvatico, insieme al sale e al profumo dell’olio bruciato nelle lampade, sono profumi comuni a tutte le tre grandi religioni monoteiste. E sono ancora lì, da scoprire. tremila anni dopo. Per ritrovarci più simili di ciò che crediamo di essere e per scoprirci in pace nel condividere lo stesso boccone.

Roberto Fiori: "Dal Golan al Negev è questa la culla della cultura del vino"

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Zichron Ya'akov

Era il 1882 quando il barone Edmond de Rothschild, proprietario in Francia del celebre Château Lafite, decise di raggiungere l’allora Palestina e di fondare la prima cantina moderna del territorio. Scelse una zona a sud di Haifa, Zichron Ya’akov, e le diede il nome di Carmel, che ancora oggi è l’azienda vitivinicola più grande di tutta Israele, con una produzione di 14 milioni di bottiglie. Sostenitore tra i più attivi del sionismo, il barone acquistò terre e finanziò iniziative per far diventare la Terra Santa il cuore produttivo dei vini Kosher per gli ebrei di tutto il mondo. Nel 1891, per completare il suo sogno, fece nascere anche una fabbrica di bottiglie a Nahsholim, sulla costa del Mediterraneo, che però ebbe vita breve.

La storia
Ma è proprio partendo da questo villaggio quasi ai piedi del Monte Carmelo, dove il museo Mizgaga conserva gelosamente l’unica bottiglia rimasta intatta di quell’epoca pioneristica, che potrebbe iniziare un viaggio alla scoperta dei territori del vino israeliano. Un itinerario che riserva molte sorprese, intrecciando le antiche testimonianze sul vino presenti nei testi biblici e la volontà di creare un moderno circuito turistico che dalle alture del Golan e dall’Alta Galilea scende fino alle aride terre del deserto del Negev. Pochi altri posti al mondo possono vantare radici così profonde: in Israele la coltivazione della vite risale a 5000 anni fa. La Torah narra che Noè, dopo la salvezza dal diluvio universale, piantò vigneti e preparò del vino che bevve fino a ubriacarsi. Un bassorilievo del 2700 a.C., custodito a Londra nel British Museum, raffigura un esercito con sfondo di viti colme di grappoli.

Ma al di là dei riferimenti storici e religiosi, negli ultimi anni la cultura del vino è letteralmente fiorita in Israele, portandosi dietro una miriade di nuove cantine (oggi sono quasi 400) e sperimentazioni in ogni regione, ma anche di enoteche e wine bar che vivacizzano le serate nei quartieri trendy di Tel Aviv e Gerusalemme. A dare il via a questa rinascita, nel 1983, è stata la cantina Golan Heights, seguita poi da aziende piccole e grandi che hanno innalzato la qualità, spesso influenzate dallo stile di enologi del Nuovo Mondo.

I vigneti
I vigneti piantati sulle alture vulcaniche del Golan, al confine con la Siria, offrono alcuni tra i vini migliori, come il Cabernet Sauvignon di Château Golan o il «Caesarea» di Assaf Winery, un Shiraz dedicato al nonno agente segreto del Mossad. E c’è anche chi, come Kidmat Zvu Babi della Ein Nashut Winery, lascia riposare le sue bottiglie in un vecchio bunker siriano. Qualità al top e panorama che abbraccia il lago di Tiberiade anche nell’Alta Galilea, dove una cantina come Lueria organizza tour tra i suoi spettacolari vigneti biologici e Ramot Naftali ha impiantato coraggiosamente Barbera e Nebbiolo. Ma dove potrete imbattervi anche in Rimon Winery, l’unica cantina al mondo che produce vino dai melograni.

Altre regioni vinicole importanti sono quelle della Bassa Galilea e le montagne Shomron - dove sorgono aziende importanti come Tishbi e Recanati ma anche la boutique winery Tulip che contribuisce al progetto della comunità per disabili Kfar Tikva -, le colline della Giudea - dove il parmigiano Sandro Pellegrini, cuoco e vignaiolo, ha fondato il ristorante e cantina La Terra Promessa - e infine il deserto del Negev. Questo territorio semi arido del sud è stato conquistato a forza di volontà e tecnologia e sta riservando le migliori sorprese anche in campo vitivinicolo. «Il futuro arriverà dal deserto» dice Ruth Ben Israel, sommelier che oggi organizza viaggi per gli israeliani nelle terre del vino italiane, ma sogna di fare il contrario. Il primo passo, già in atto, è concentrarsi sui vitigni mediterranei. Poi c’è il sogno di tutti: risalire alle varietà antiche, scoprire da quali uve era prodotto il vino della Bibbia. Un mistero che forse le terre della Cisgiordania, dove l’uva è coltivata da secoli solo come frutto e non ha subìto grandi evoluzioni, un giorno sveleranno.

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