Riprendiamo da SHALOM, maggio 2015, a pag.31, con il titolo " Simbologie ebraiche ", il commento di David Meghnagi.
David Meghnagi
La Menorah è il più antico simbolo del popolo ebraico e della sua cultura. Molto più antico della stessa di David, che ha assunto un ruolo centrale negli ultimi due secoli. Come dimostrato da Scholem, il grande storico del misticismo ebraico, nell’antichità non era un simbolo utilizzato unicamente dagli ebrei. Le simbologie della Stella di David sono state l’oggetto di acute riflessioni nell’opera di Rosenzweig. I due triangoli sovrapposti rappresentano l’incontro del Cielo con la terra, il bisogno reciproco d’incontro fra l’umano e il divino. La radice umana è proiettata verso il cielo, lo sguardo del Cielo è partecipe del dolore umano. Ma la Menorah. Dove sta il suo segreto? Nella prospettiva biblica, le benedizioni che Dio rivolge a Israele non escludono le altre nazioni. Il patriarca Abraham è capostipite di popoli e nazioni che in lui sono benedette. Ishma’el (Ismaele), suo primogenito, è nella tradizione ebraica il capostipite dei “popoli arabi e islamici”. ’Esau (Esaù), primogenito di Itzchaq, il secondo dei patriarchi, è il capostipite dei “popoli cristiani” (Bereshit/Genesi, 17.5). Nella ghematria la yud corrisponde al numero dieci. La he corrisponde al numero cinque. La consonante h di Abraham, quinta dell’alfabeto, è il segno di una presenza divina che avvolge l’intero mondo. Trasferitasi dalla moglie Sarai (che diventa Sarah) al marito, dopo la terribile prova cui hanno fatto fronte, la duplice h di Abraham e di Sarah è il segno di un rinnovamento che appartiene al mondo. La yud e la he sono nella Bibbia due delle lettere di cui si compone il Tetragramma santo e impronunciabile del Nome divino. Secondo un midrash la yud di cui si compone in origine il nome Sarai è stata scomposta in due he, ciascuna delle quali è stata incorporata nel nome dei due patriarchi divenuti Sarah e Abraham a testimonianza della presenza della Shekhinah. Anche nella tragedia, l’Ebraismo non ha mai negato ai suoi oppositori la loro umanità. Non era stato Abraham a mettere in discussione il diritto divino a distruggere Sodoma se vi erano dieci giusti “Tu Faresti perire anche il giusto con l’empio?”, si legge in Bereshit / Genesi, 18.23). Proiettando su uno schermo sotto forma di cerchi e cerchietti gli occhi, i fori nasali e le orecchie, si ottiene l’immagine di un candelabro a sette braccia. Espressione di una proiezione simbolica del volto umano, il Candelabro sta a indicare i legami indissolubili che uniscono il genere umano di cui Israele è testimone. Poiché non è consentita la rappresentazione per immagini, la tradizione ebraica ricorre a una figura astratta in cui sono simbolicamente rappresentati i fori attraverso cui l’uomo ascolta, vede e respira. L’umanità nell’ebraismo biblico è rappresentata come una grande famiglia simbolicamente rappresentata da settanta popoli, il numero di coloro, che scesero in Egitto. I sensi uniti sono la condizione per una conoscenza che sia allo stesso tempo emotiva e cognitiva. Osservando il rituale della Birkhat Ha-Kohanim (La Benedizione dei sacerdoti) lo schema si ripete. Le due mani che benedicono con l’indice e il medio, l’anulare e il mignolo rispettivamente uniti corrispondono alle quattro lettere ebraiche di cui si compone il Nome divino impronunciabile. Le quattro lettere sono la yud, la he, la waw e la he. La vita nella diaspora non è stata solo una valle di lacrime. Diaspora ed esilio non sono sinonimi. L’immagine della Sukkah, la capanna in cui dimorarono gli ebrei nel deserto, non è un’immagine di perdita, ma di una presenza di vita che nessuna realtà statale potrebbe mai surrogare. La parentela semantica delle parole galuth e gheullah è per i mistici della Qabbalah anche una parentela di sostanza. Di fronte alla tragedia delle persecuzioni il più oppresso dei popoli sa di essere interiormente più libero dei suoi oppressori. Nella mistica l’esilio diventa la condizione della redenzione attraverso la liberazione delle scintille divine intrappolate negli anfratti più riposti del mondo e del cosmo. In un gioco di scambi simbolici il galuth, l’esilio è un effetto d’ombra prodotto dalla malattia (machalà) dell’anima, che avrebbe assunto un altro significato con l’avvento della redenzione (gheullah). Su un piano più strettamente psicologico la parola machalà, malattia, nasce dall’incapacità di sognare (machol) e di immaginare. Anche nel rapporto con la terra e col possesso le cose non stanno diversamente. Il rapporto che l’Ebraismo intrattiene con la Terra non è di appropriazione, né di saccheggio, né di dominio. La memoria della condizione straniera in Terra d’Egitto è un appello rivolto al futuro che assume il sentimento di estraneità come valore costitutivo dell’essere umano contro la tentazione regressiva dell’idolatria nazionalistica e statalistica. La condizione straniera, come ripete con insistenza il Devarim, è una condizione ontologica che prescinde dalla condizione materiale e dalla sovranità. La libertà non si misura sul potere che si ha sugli altri. Quella è la libertà del Faraone che conduce il mondo alla catastrofe. Non è una questione di territorio o di provenienza. Abraham è un ebreo (’ivrì) perché è altrove non nel senso fisico e materiale del termine, ma con la mente e con lo spirito. Il suo orizzonte mentale è una giustizia rivolta a tutta l’umanità e che si estende al mondo animale e vegetale. La responsabilità verso il creato è assoluta e la Terra è nella Torah solo in affidamento. Il mondo intero è una casa da proteggere e conservare. Decidere se essere popolo dello spazio o del tempo, della contingenza o dell’eternità, non è una questione che appartiene agli Stati, né può essere rimandata al giorno in cui gli ebrei potranno vivere al sicuro e in pace con i vicini. Non c’è un prima e un dopo per declinare la propria vocazione.
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