Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 25/05/2015, a pag. 41, con il titolo "Vi racconto il far west della Cisgiordania", l'intervista di Susanna Nirenstein a Assaf Gavron.
Susanna Nirenstein Assaf Gavron
La copertina
Stufi degli assonnati spiriti borghesi del paese, in fuga forse dal proprio passato, in cerca di un senso, un po’ freak, convinti di poter darsi le leggi da soli, amanti del vento, del paesaggio estremo, della solitudine, della sfida, e del cielo conturbante della Bibbia. Ne sapevamo poco dei coloni della Cisgiordania, solo dalle cronache. Ora, con l’ottimo La collina, il settimo romanzo del 47enne Assaf Gavron, ci ritroviamo tra i settler del West Bank, anzi, tra quelli di un outpost illegale, Maalé Chermesh C, una decina di container di 4 metri per 11 che funzionano da case e sinagoghe e asili, il genere di postazione che siamo abituati a immaginare abitata da una banda di estremisti invasati.
Beh, era la stessa cosa che pensava Gavron, israeliano di supersinistra, capitano della squadra di calcio degli scrittori del paese, cantante in una rock band, di origini inglesi, vincitore con La collina del Bernstein Prize e finalista al Saphire e al Brenner. Ma lì ha trovato invece una quindicina di normali esseri umani. Sì, beffano l’esercito e il ministro che vuole sradicarli facendo telefonate ai politici amici, oppure alleandosi paradossalmente con i palestinesi locali e con manifestanti di Shalom Achshav per non far costruire il muro di difesa su quel terreno; ma poi lavorano sodo, vivono semplicemente, amano o divorziano, stanno dietro ai figli a volte devotissimi (ma pronti, come la bella Ghitit, ad avere le prime emozioni amorose con il soldato di guardia), altre, come Yakir, pieni di dubbi sul rapporto violento con gli arabi. Pregano, si rivolgono a Dio, ma non ossessivamente in fondo. Anzi, il più pio è Gabi, uno che arriva da una storia di kibbutz e fallimenti per una serie di gravi corti circuiti mentali che, in tanta mitezza, lo rendono violento. Suo fratello Roni è l’opposto, un leader in ogni campo, scuola, pallacanestro, esercito, imprenditoria. Eppure anche lui finisce a Maalé Chermesch C, disperato, subito pronto però a cercare di rimettersi in piedi facendo un business con l’olio di oliva dei vicini palestinesi. C’è tanto in questo libro soffuso di ironia, a brevi tratti di sublime, di dolore che emerge dai flash back. Capiamo molto di quello che non abbiamo mai capito.
Mr Gavron, come ha deciso di inoltrarsi in un tema tanto scottante? «Perché non mi accontentavo di demonizzare i settler, volevo capire perché e come qualcuno decide di fare una scelta che ha delle ripercussioni dirette sulla mia vita, sulle possibilità di pace, sull’immagine del paese, su come anche io, in quanto israeliano, vengo percepito dal mondo. Volevo andare a vedere. E ho trovato delle persone affascinanti, certo controverse, ma con una passione interiore sconosciuta a molti. Gente con background diversissimi, russi, americani, kibbutznik, informatici, coltivatori di rucola e pomodorini, pastori, insieme in una tensione quotidiana alta, in una terra senza confini chiari, dove valgono ancora i miti della frontiera e farwest».
Ha vissuto in un outpost per diverso tempo. «Andavo e venivo. Per due anni ho visitato molti insediamenti. Ma soprattutto l’avamposto Tekoa D, piccolo, moderato, non ostile — altrove mi avevano mandato via. Erano incuriositi che uno di Tel Aviv non volesse per forza criticarli ma conoscerli e scrivere un libro su di loro. Per tre giorni alla settimana potevo stare in una capanna di legno a strapiombo su un dirupo, come quella costruita da Gabriel, nel silenzio e tra i venti».
Ha trovato quello che si aspettava? «Non ero stupito, ero certo che non sarebbero stati uguali allo stereotipo del male. Ma mi ha sorpreso la varietà della gente, che politica e religione fossero sì importanti, ma non quanto il fatto che quel luogo fosse poco costoso, bellissimo e, paradossalmente, rilassante. Nonostante la tensione con gli arabi e l’esercito, la vita di ogni giorno si svolgeva in mezzo alla natura e a un cielo spettacolare».
La loro fede l’ha tentata? «No, mi sentivo un antropologo. E poi dal momento in cui passi la frontiera avverti una sorta di nervosismo nell’aria, che non fa sentire a proprio agio, come quando ero soldato. No, niente mi ha tentato, non sono cambiato, né io, né le mie idee».
Non ci sono mai cattivi. «A volte puoi dimenticare che la loro dimensione sia anche così politica, e qualcuno dice anche che non è interessato a quest’aspetto. Vivono, lavorano, ridono, litigano. E io non volevo scrivere un libro polemico, volevo descrivere chi erano. Comunque nel romanzo i fanatici ci sono, Otniel è un tipico ideologo del movimento, Neta è una capopopolo, ma poi invita la sorella per il week end, fa l’estetista, vuole un bambino...».
Non ci sono neanche i buoni. Ognuno ha dei difetti. Ma lei è totalmente empatico, non giudica. Sembra lo stesso metodo usato nel suo libro La mia storia, la tua storia , dove entrava nella testa di un terrorista palestinese. In Israele fu molto criticato. Come è stato accolto questa volta? «Per me ogni persona è un essere umano, orribile o fantastico che sia. Un romanzo ha il potere di mostrare proprio che non tutto è bianco o nero. Io amo entrare in personaggi controversi su cui in genere si usano degli stereotipi. Nel caso del kamikaze volevo capire come si diventa uno che vuole uccidere altre 20 o 50 persone oltre se stesso. La collina è piaciuto alla critica. Anche se credo non mi leggano né quelli dell’estrema destra, che non si fidano di me, né quelli dell’estrema sinistra: per loro che un colono sia un essere umano non è previsto».
Kibbutz e colonie: spesso nel romanzo vengono accostati come due piccoli universi ugualmente chiusi, con un controllo sociale esasperato, una forte ideologia e la sicurezza di essere perfetti. «Non sono il primo a dire che sono simili. Ma raccontarlo in un romanzo è un’altra cosa: se prendiamo i primi anni dei kibbutz, la loro scomodità, l’audacia, l’appropriarsi illegalmente di qualche metro in più... quel sentirsi una minoranza superiore a tutti gli altri, la passione... Si assomigliano, ne sono sicuro».
I fratelli Gabi e Roni sono le due facce di Israele oggi? «Non l’avevo pianificato. Ma in effetti sono complementari, e il loro insieme è l’Israele contemporanea. Roni che eccelle e tenta la fortuna rischiando tutto, Gabi timido, ma con una buona dose di violenza pronta ad esplodere. Ma si amano molto, le loro parti in conflitto possono trovare un accordo ».
Tempo fa ha detto che i settler erano il maggior ostacolo alla pace. Oggi, pensando anche a Gaza e a Hamas, al nuovo governo di destra sempre in lite con Obama, l’Isis, la Siria, l’Iran, lo direbbe ancora? «Non è il maggior ostacolo, ma il primo, il più diretto, alla soluzione due popoli due stati».
E tutto il resto? «Non siamo circondati da amici. Ma penso che nessuno ci cancellerà dalla faccia della terra».
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