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Lettera a Mario Calabresi, direttore della Stampa 22/05/2015

Pubbblichiamo la lettera inviata al direttore della Stampa Mario Calabresi da Ariella Lea Heemanti, e invitiamo tutti i lettori di IC a prenderne spunto.

Gentilissimo direttore, dopo una lettera aperta che le scrissi due anni fa, e che venne pubblicata su Informazione Corretta, questa è una lettera che torno a inviare a lei e, parimenti, alla giornalista Francesca Paci perché anche lei destinataria, come per quella lettera, di considerazioni che, credo, non siano sorte soltanto in me dopo la lettura della recensione a un libro scritto dalla signora Paci sulla memoria di Auschwitz. Quella lettera da Gerusalemme, aperta e accorata come uno strazio nella notte, nacque alla lettura di quell'infausto, ennesimo, disonesto luogo comune del piccolo "Davide palestinese" armato di solo sacrificio e coraggio contro il temibile, potente "Golia israeliano", ribadito in un articolo anche dalla sua giornalista, in occasione di un premio fotografico internazionale che quell'anno andava a una foto - risultata poi ripassata al fotoshop- dove veniva rappresentato il funerale di un bambino arabo palestinese, con tanto di facce, di sguardi e di pianto dei padri di fronte all'indomabile, odiato e vituperato mitologico "mostro ebreo", costruito a tavolino, attraverso le foto dei soldati israeliani raffigurati con la stessa perversa opera di disumanizzazione dell'ebreo che portò alla Shoah. Insieme a quel luogo comune, frutto di una cinquantennale manipolazione della storia, dei fatti, delle verità, l'articolo abbondava di tutti gli altri stereotipi sulla questione mediorientale, non ultima la perniciosa allusione a quel fatale - e inveritiero - capovolgimento delle cose, per cui gli israeliani, secondo la vulgata antisionista, da settant'anni stanno facendo ai palestinesi quello che i nazisti facevano a loro, le vittime sono divenute carnefici, e Gaza e Ramallah sono le nuove Auschwitz, come anche il famigerato José Saramago - immakh shemò, sia cancellato il suo nome, si dice dalle mie parti e nella mia tradizione per i malvagi - aveva scritto sui giornali dopo la sua vista al bunker della Muqata, precisando che questo valeva anche se là non c'erano le camere a gas, i campi di concentramento e i forni crematori. Che importa! Questi, direbbe Jean Marie Le Pen, un altro denigratore e negatore della storia, sono dettagli! Ciò che importa è manomettere, svilire la memoria della Shoah, comparandola, ad ogni occasione, alla sofferenza palestinese, sottraendola ai fatti, alle cause e alle ragioni e responsabilità vere , comprese quelle dell'armata e della folla panaraba inneggiante al nazismo e alla soluzione finale del problema ebraico anche in Palestina. Negare, alfine, la realtà stessa della Shoah, sostituendola con il culto dei campi profughi palestinesi e l'accusa di genocidio a coloro che alla Shoah sono sopravvissuti rinascendo dalla cenere. Spero che lei abbia arguito già il motivo di quest'altra lettera. Le persone possono riflettere, cambiare e ammettere i loro errori. E quindi una giornalista che non si è sottratta, nei suoi articoli su Israele, allo stereotipo più turpe, può, scrivendo di Shoah, imparare dalla sua stessa scrittura, dalla voce delle vittime che riecheggia alta e autentica nelle pagine del suo libro, a rifiutare le sue stesse parole scritte di allora, di un tempo recente e accanito, iniquo, contro l'ebreo fra gli stati. Forse. Non ho letto il libro della signora Paci. Ho letto il suo commento, direttore. E spero che anche lei rifletta, sconfessi quel ribaltamento mirato, quel luogo comune impastato al fango di Auschwitz, che in tutti questi anni ha chiamato Golia l'ebreo e David quell'esercito di pietre niente affatto paragonabili alla pietra e alla fionda del re cantore. Identico, invece, alle pietre del pogrom, quando nei campi attorno allo sthetl la polvere s'alzava sotto lo zoccolo dei cavalli degli antisemiti, prima delle pietre, prima dell'assalto, insieme all'odio e all'impeto della distruzione, che arrivava. Arrivava con le pietre, con il sangue, con la morte degli ebrei in tutto e per tutto uguale alla strage di Itamàr, a quel silenzio notturno di vento e di respiro di bambini, squarciato e distrutto dall'odio antisemita di cui sono cibati i piccoli futuri eroi palestinesi di una fionda inesistente e di un'arma invece sciagurata per l'umanità tutta, per la sua memoria senza la quale essicca l'albero della vita. Non si è degni di scrivere di Auschwitz, di raccontare quell'orrore, quella sofferenza, quel dolore, quella pena e quell'ingiustizia immane, quella solitudine che ancora dura, se non si abiura alla mistificazione della Shoah, alla sua sostituzione con il modello palestinese che è stato ed è un simbolo di disastro, perdita e sventura accresciute anno per anno dal rifiuto della vita dell'ebreo, della sua presenza vitale, della sua colpevolizzazione per i propri mali, e già in questo i paragoni, semmai, vanno ravvisati dove devono essere ravvisati, secondo la lezione della storia; ma anche una caccia all'ebreo e uno sterminio per ogni dove, nei villaggi di Itamar, o nel cuore gerosolomitano della Città Vecchia, sulla superficie azzurra e immota dello yam tichonì, del Mar Mediterraneo, su una nave; o nella città monacense delle Olimpiadi del 1972, dove, fra gli altri tzadiqim d'Israele massacrati dagli eroi palestinesi della morte, Ze'ev Friedman, Kehat Shor, e Yakov Springer - unico sopravvissuto della sua famiglia alla Shoah- erano sfuggiti alla fornace di Auschwitz per poi morire sotto i colpi di Kalashinikov baciati dai loro assassini, prima di essere azionati, al grido sorridente, al ghigno hitleriano di Ya Habibi, Amore mio. Quale senso può mai avere essere spinti a scrivere un libro sulla memoria di Auschwitz dal discorso negazionista di David Irving, come racconta la giornalista Paci, se non si riconosce lo sbaglio esiziale e immorale di avere celebrato, anche con un luogocomune antisionista falso e liberatorio - il Golia israeliano e il Davide palestinese - i negazionisti del Medioriente, con in testa colui or ora passato dal Vaticano, a ritirare l'epiteto di "angelo della pace", dopo essere stato l'ombra malevola del massacro non solo di Monaco, ma anche della Strada Costiera d'Israele nel 1978, la statua della cui orrenda esecutrice si staglia oggi nel cielo nero di Ramallah grazie al tributo di Abu Mazen. Con una domanda sospesa nei cieli immensi e puri della memoria vera, dove le ceneri di Auschwitz non possono essere contaminate e calpestate, trasformate in patenti per negare quell'antisemitismo cha va sotto il nome di antisionismo, sospendo questa lettera, quest'altra lettera, nata nella notte, in un'altra notte ancora pervasa dal silenzio di quelle neshamot, di quelle anime, di quel respiro, ad Auschwitz come a Itamàr.

Ariella Lea Heemanti


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