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La Stampa Rassegna Stampa
20.05.2015 Scontri di inciviltà: in Arabia Saudita troppe condanne a morte, i boia non bastano; in Turchia aggredita star di un talent show: 'Aveva le braccia scoperte'
Cronache di Maurizio Molinari, Marta Ottaviani

Testata: La Stampa
Data: 20 maggio 2015
Pagina: 13
Autore: Maurizio Molinari - Marta Ottaviani
Titolo: «Troppe condanne a morte, il governo assume boia - Canta in tv, punita dal clan con un colpo alla testa»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 20/05/2015, a pag. 13, con il titolo "Troppe condanne a morte, il governo assume boia", la cronaca di Maurizio Molinari; con il titolo "Canta in tv, punita dal clan con un colpo alla testa", la cronaca di Marta Ottaviani.

Ecco gli articoli:

Maurizio Molinari: "Troppe condanne a morte, il governo assume boia"


Maurizio Molinari e il suo recente libro "Il Califfato del terrore"

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In Arabia Saudita tutte le esecuzioni avvengono nelle pubbliche piazze
Arabia Saudita, prossimo 'ospite d'onore' al Salone del Libro

Da quando Salman è divenuto re in Arabia Saudita le condanne a morte si sono moltiplicate fino al punto da mettere a nudo la carenza di boia per eseguirle e il governo è ora obbligato a mettere inserzioni pubblicitarie per reclutarne di nuovi.
A descrivere quanto sta avvenendo dentro il regno wahabita sul fronte della pena capitale sono i recenti rapporti di Amnesty International e Human Rights Watch: le condanne a morte eseguite nell’anno corrente sono già 85, rispetto al totale di 88 dello scorso anno, e i tribunali continuano a decretarle ad un ritmo crescente. Fino al punto che ve ne sono 8 da eseguire per le quali mancano «sciabolatori qualificati» ovvero i boia. Poiché l’insediamento del nuovo sovrano è avvenuto il 23 gennaio ciò significa che il suo regno ha una media di 20,7 decapitazioni al mese rispetto alle 7,3 del predecessore Abdallah nel 2014. Ciò significa che l’Arabia potrebbe terminare l’anno scalando la macabra classifica delle esecuzioni che l’ha vista concludere il 2014 al terzo posto, dietro a Cina e Iran ma davanti a Iraq e Usa.

L’accelerazione
Sul perché dell’accelerazione delle condanne a morte vi sono diverse interpretazioni. Adam Coogle, ricercatore di Human Rights Watch sull’Arabia, afferma che «38 di quelle eseguite si devono a reati di droga» e ciò porta a suggerire una maggiore infiltrazione di trafficanti di stupefacenti nel regno ovvero un campanello d’allarme sull’aumento di corruzione e disagio nelle nuove generazioni. Fonti diplomatiche a Riad sostengono invece che si tratta di una conseguenza di «nuove nomine nel sistema giuridico» che avrebbero riempito vuoti e favorito elementi ultraconservatori con il risultato di risolvere con la pena capitale un cospicuo numero di casi pendenti.

Sui media arabi del Golfo l’interpretazione che prevale si lega infine «guerra ai terroristi» ovvero al pugno di ferro contro i gruppi jihadisti coordinato da Muhammed bin Nayf, ex ministro dell’Interno e designato proprio da Salman nuovo erede al trono.

Amputazioni e Sharia
Quale che sia la genesi dell’accelerazione, in risultato è l’inserzione pubblicitaria con cui il ministero del Servizio Civile mette in palio 8 posti di boia, spiegando che «dovranno applicare la Sharia e lavorare molto duro» decapitando nelle pubbliche piazze. Al punto che l’incarico di «funzionario religioso» prevede «fare pratica amputando arti» ai condannati a pene minori. Anche qui si tratta di un indicatore sull’inasprimento dell’applicazione della Sharia perché finora i giudici sauditi esitavano a ordinare amputazioni di mani ai ladri. Sulla remunerazione dei boia il bando non dà dettagli ma nella provincia di Qassim, a Nord della capitale Riad, il «premio» previsto sono 1000 dollari Usa per ogni testa mozzata.

Marta Ottaviani: "Canta in tv, punita dal clan con un colpo alla testa"

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Marta Ottaviani, Mutlu Kaya

In Turchia basta partecipare a un talent show per vedere la propria vita spezzata. Mutlu Kaya era pronta a realizzare il sogno della sua vita, diventare una cantante famosa, quando due giorni fa un colpo di pistola l’ha colpita alla testa trascinandola dal paradiso all’anticamera della morte. Tutto è iniziato a marzo quando la giovane, 19 anni e originaria di Diyarbakir, nel Sud-Est della Turchia, a maggioranza curda, decide di partecipare a un popolare talent show intitolato «Sesi Cok Guzel» (La sua voce è molto bella). Il successo arriva subito. Mutlu è apprezzata dalla giuria, soprattutto da Sibel Can, una delle più note cantanti folk turche, che promette a sua madre che la porterà a Istanbul per farne un’interprete di successo. La gioia, purtroppo, dura poco.

L’assalto
Mutlu viene da una zona della Turchia dove la composizione della società è ancora caratterizzata dalla presenza di clan, con una concezione della donna arcaica, e dove la sorte delle ragazze viene spesso stabilita alla loro nascita. Intorno a metà aprile la inizia a ricevere la prime minacce di morte da persone appartenenti alla tribù del padre che mal tollerano la sua partecipazione al reality, anche per i vestiti indossati dalla giovane, che lasciano spesso scoperte le spalle.

Poi il tragico epilogo. Lunedì notte, tre, forse quattro persone, si sono introdotte in casa della giovane donna e le hanno sparato un colpo alla testa, fortunatamente senza riuscire a ucciderla. Mutlu ora si trova in terapia intensiva all’ospedale di Diyarbakir, in bilico fra la vita e la morte. La sua storia ha commosso la Turchia e fatto tornare in primo piano un argomento disgraziatamente spesso sulle prime pagine dei giornali nel Paese, il femminicidio.

La «legge»
Il padre della giovane, ha spiegato con la voce rotta dal pianto di non avere nulla a che vedere con l’aggressione e che vuole vedere sua figlia uscire dal coma e tornare a cantare. La polizia ieri ha fermato quattro persone, di cui tre, tutte legate al clan da cui proviene il padre della ragazza, sono state rilasciate quasi subito. La quarta è l’ex fidanzato, che le forze dell’ordine turche hanno identificato come Veysi E. e che al momento rimane il sospettato numero uno dell’attacco. «Ero contrario alla sua partecipazione al talent – ha detto Veysi durante l’interrogatorio, riportato dal quotidiano “Milliyet” -. Ma non sono stato io a colpirla. Non lo avrei mai fatto».

Per il momento l’unica certezza è che Mutlu e la sua famiglia sono stati puniti per il comportamento della giovane, che viola le leggi tribali e arcaiche ancora in uso in alcune parti del Paese, spesso senza una reale connotazione religiosa.

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