Usa: cosa pensano di Israele i candidati repubblicani?
Analisi di Stefano Magni
Ted Cruz
Hillary Clinton può suscitare più o meno ammirazione, più o meno critiche, ma sarà la candidata unica delle elezioni presidenziali del 2016. Così, almeno, la considerano i media, soprattutto in Italia, dove informano di luce riflessa dalle grandi testate americane.
I repubblicani, soprattutto i candidati che finora hanno annunciato la loro corsa per la Casa Bianca, sono uomini “inesistenti”. Uno dei motivi per cui sono considerati tali è il loro atteggiamento nei confronti di Israele. Se, infatti, il “mainstream” ritiene che Netanyahu sia il problema numero uno del Medio Oriente, i repubblicani si sono distinti invitandolo a parlare al Congresso, anche contro la volontà del presidente Obama. Se la parola d’ordine è la distensione con l’Iran, i repubblicani non l’hanno mai voluta (anche se sono dovuti scendere a compromessi proprio nelle ultime settimane).
Un episodio molto rivelatore dell’atteggiamento repubblicano nei confronti del Medio Oriente (e della conseguente percezione che ne hanno i media) è un’iniziativa per la difesa dei cristiani e degli ebrei tenuta da Ted Cruz, senatore repubblicano candidato alla presidenza, di origine messicana e cattolico. Nel suo discorso alla cena di Idc (in defense of christians) il candidato ha espresso con sincerità il suo pensiero: “Questa sera siamo tutti uniti in difesa dei cristiani. Questa sera siamo tutti uniti in difesa degli ebrei. Questa sera siamo tutti uniti in difesa di persone in buona fede che stanno resistendo contro i loro persecutori, contro chi vuole assassinare chiunque sia in disaccordo con i propri insegnamenti religiosi”.
E’ stato fischiato dai cristiani mediorientali, per questo discorso, in piena cena di gala. Perché alcuni di questi cristiani, soprattutto siriani, soprattutto sostenitori di Assad, si identificano nel ruolo di perseguitati dagli ebrei. Perché la propaganda di regime identifica i terroristi islamici come agenti di Israele e loro ci credono. Perché nel mare magnum della disinformazione, credono che tutta la destabilizzazione del Medio Oriente sia architettata nelle “segrete stanze” del sionismo. Ted Cruz propone che gli Usa difendano le due grandi minoranze del Medio Oriente, l’ebraismo e il cristianesimo, entrambe originarie del Medio Oriente, vissute in quelle terre molto prima dei musulmani ed entrambe humus della cultura con cui sono state plasmate l’Europa e l’America. E per questo è considerato un “pachiderma” diplomatico, un elefante nella cristalleria, un ingenuo idealista.
Così almeno viene descritto dai media. Che evidentemente preferiscono l’atteggiamento di un Obama, che lascia massacrare i cristiani dai jihadisti (perché intervenire sarebbe “troppo complesso”) e bacchetta Israele ogni volta che questo vuol difendersi (perché “è quella la causa del conflitto”). Questo è il paradosso a cui assisteremo: difendono Israele perché è occidentale ed è alla radice del cristianesimo, ma proprio per questo sono aggrediti da cristiani e occidentali contemporanei. Quelli per cui la difesa dell’Occidente e del cristianesimo sono sintomi di rozzezza intellettuale.
Ted Cruz, essendo senatore, ha avuto finora voce in capitolo in politica estera e una storia di voto già ampia, soprattutto sul Medio Oriente. Propone di armare i peshmerga curdi per combattere l’Isis, con il sostegno degli Stati Uniti. Propone raid selettivi per distruggere lo Stato Islamico. Che, dal suo punto di vista, deve essere distrutto, non semplicemente “ridotto e respinto” come ritiene Obama, d’accordo con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Sempre contrariamente al presidente, Ted Cruz si oppone ad aiuti a fondo perduto in favore dei ribelli siriani. Vorrebbe vincolare l’invio degli aiuti all’esame di un loro progetto politico chiaro e trasparente, in modo da poter distinguere gli jihadisti dai democratici. Ha sempre votato a favore di Israele e della sua difesa dal terrorismo di Hamas. Si oppone all’appeasement con l’Iran e propone di congelarne i fondi all’estero.
Se, fra i repubblicani, compaiono anche due candidati che non hanno alcuna storia di voto sugli esteri ed hanno esposto ben poche idee in merito (Carly Fiorina e Ben Carson), altri due sono veramente dei veterani degli esteri, grazie ai loro quattro anni in Senato: Marco Rubio e Rand Paul esprimono due visioni diverse sulle relazioni internazionali, due pensieri coerenti e complessi.
Marco Rubio
Marco Rubio è espressione tipica dell’ala interventista e idealista americana, degno continuatore (per restare in ambito repubblicano) di John McCain. Convinto dell’eccezionalismo americano e della missione storica liberatrice, nel Medio Oriente ha appoggiato tutte le rivoluzioni democratiche e ha condannato il successivo disinteresse statunitense. E’ quest’ultimo, a suo avviso, ad aver causato la crisi siriana, la nascita dell’Isis, lo caduta della Libia nel caos. All’atto pratico, nella sua storia di voto, troviamo la proposta di assistere militarmente la Giordania per combattere contro l’Isis. Ritiene che sia meglio un intervento diretto nel nuovo conflitto iracheno contro gli jihadisti, per evitare che sia l’Iran ad avvantaggiarsene. Considera un errore eliminare l’opzione militare dal tavolo delle trattative, sia per quanto riguarda l’Iran che per la Siria di Assad, anche se pensa che un intervento armato contro il dittatore baathista, ora che si sta combattendo l’Isis, sia “controproducente”. Ha sostenuto vigorosamente Israele nel suo conflitto a Gaza ed è considerato uno dei “peggiori” dalla lobby pro-palestinese del congresso. Anche per quanto riguarda i conflitti del passato più recente, era favorevole sia all’intervento in Afghanistan che in Iraq, semmai ritiene che sia stato un errore ritirarsi dall’Iraq e pubblicare una tabella di marcia per il ritiro dall’Afghanistan.
Rand Paul
A questa visione idealista, che qualcuno chiamerebbe “neocon”, si contrappone l’isolazionismo pragmatico di Rand Paul, figlio di Ron. Quel Ron Paul talmente anti-israeliano da definire Gaza “un lager a cielo aperto”. Rand non è altrettanto anti-sionista. Anzi. Si è recato in Israele a testimoniare la sua amicizia. Critica gli aiuti militari a fondo perduto, ma, nello stesso tempo, ritiene che gli Usa debbano smettere di porre vincoli alla politica estera di Israele, sempre nel nome dello stesso principio non-interventista. Vuole tagliare gli aiuti ai regimi ostili agli Usa, proprio a partire dall’Autorità Palestinese. Ritiene che si debba preservare l’alleanza con “l’unica democrazia nel Medio Oriente”. Quanto riuscirà a discostarsi dal padre? Lo si vedrà solo quando la campagna elettorale entrerà nel vivo.
Hillary Clinton, dunque, non è l’unica candidata. La politica di Obama non è l’unica possibile. I repubblicani, mediaticamente inesistenti, evocati solo per essere contestati o insultati, potrebbero essere dei veri amici di Israele, anche se la comunità ebraica americana, finora, non ha mai pensato di votarli.
Stefano Magni