Due servizi di Maurizio Molinari sulla STAMPA di oggi, 17/05/2015, a pag.1/2/3.
Maurizio Molinari
Maurizio Molinari: " Ora scatta la caccia al Califfo"
L’eliminazione di Abu Sayyaf rivela che dopo 281 giorni di raid aerei il Pentagono cambia tattica contro il Califfo mandando in campo le truppe speciali: la svolta militare punta a colpire lo Stato Islamico (Isis) lì dove è più forte.Vale a dire la gerarchia interna che gestisce il petrolio e guida le operazioni di terra. Abu Sayyaf era l’«Emiro del greggio» di Abu Bakr al- Baghdadi e dalla sua residenza ad Amr gestiva di persona traffico e vendita del greggio estratto dai campi di Dair az-Zour, i più importanti della Siria. L’efficienza di Abu Sayyaf è descritta dai numeri: dall’indomani della proclamazione del Califfato, il 29 giugno 2014, ha garantito entrate di circa 3 milioni di dollari al giorno vendendo il greggio - anche iracheno - soprattutto a trafficanti turchi e curdi, e quando il calo del prezzo ha ridotto i profitti di oltre un terzo ha iniziato, con grande disinvoltura, a smerciare petrolio a chi più ne ha ancora bisogno, ovvero l’arcinemico regime di Bashar Assad. Sebbene Damasco continui a negare di acquistare illegalmente petrolio da Isis - come il ministero del Tesoro Usa ha invece sostenuto in marzo - l’abilità di Abu Sayyaf nel continuare a vendere greggio a dispetto di raid e sorveglianza satellitare lo ha trasformato in uno dei pilastri del Califfato. Tanto più pericoloso quanto imiliziani jihadisti sono oramai entrati dentro la super raffineria irachena di Baiji e, riuscendola a controllare, potrebbero moltiplicare entrate e profitti grazie a cui il Califfato paga stipendi mensili a dipendenti, imam e combattenti che vanno da 200 a 800 dollari.
Raid siriano "rivale"
A confermare la scelta dell’attacco alle strutture petrolifere del Califfato c’è il fatto che, quasi contemporaneamente al blitz della Delta Force, il regime di Damasco ha affermato di aver eliminato, nella stessa regione di Dair az-Zour il «ministro del Petrolio» di Isis ovvero Abu Taym al-Saudi «mentre si trovava nel campo petrolifero di Omar». Washington nega di aver informato Damasco in anticipo del blitz contro l’«Emiro del greggio», ma i due attacchi suggeriscono che i più agguerriti nemici del Califfo seguono un copione almeno simile. Ma non è tutto perché, da quanto trapela da fontimilitari americane, l’intento della Delta Force era di «catturare l’Emiro» e il blitz ha portato al sequestro di «materiale di comunicazione adoperato da Abu Sayyaf per restare in contatto con Al Baghdadi». Da qui l’ipotesi che il Pentagono stia in realtà soprattutto braccando il Califfo - più omeno ferito, poco importa - e i suoi più stretti collaboratori ovvero i due «generali» da cui dipendono le operazioni di terra in Siria e Iraq: Abu Ali al-Anbari, capo della struttura militare e veterano dell’esercito iracheno di Saddam Hussein, e Abu Omar al- Shishani, il feroce veterano della guerra in Georgia a capo delle unità dei volontari stranieri impegnati in Siria.
Iracheni poco affidabili
La scelta di dare la caccia ai leader, impiegando truppe speciali sul terreno, nasce dalla necessità del Pentagono di imprimere una svolta alle operazioni anti-Isis alla luce dei deboli risultati della propria offensiva aerea come anche di quella terrestre condotta dagli iracheni. Dopo la caduta di Tikrit, in marzo, il neopremier iracheno Haider Abadi aveva promesso una veloce riconquista dell’Anbar - la regione roccaforte dei sunniti - per poi dare l’asdelsalto a Mosul, ma il successo di Isis nell’assalto a Ramadi ha evidenziato il flop dei generali iracheni, il cui errore tattico è stato di affidarsi a truppe sciite sostenute da milizie filo-iraniane, con il risultato di spingere molte tribù sunnite verso Isis. Quando ai carenti risultati di terra, Baghdad ha iniziato a sommare l’annuncio di eliminazioni di leader di Isis - da Al-Baghdad al vice al-Afri - non confermati dall’intelligence Usa, i comandi del Pentagono hanno percepito la necessità di assumere l’iniziativa. Ecco perché l’eliminazione di Abu Sayyaf è solo l’inizio di una caccia ai gerarchi del Califfato destinata a moltiplicare gli scontri frontali fra soldati Usa e jihadisti.
Assad, preoccupato ?
Maurizio Molinari: Assad accerchiato, islamisti in ripresa. E la Cia scommette sui ribelli 'amici'
La Siria delle nostre carte geografiche non esiste più, al suo posto c’è un territorio controllato al 40 per cento dal regime di Bashar Assad, per un altro 40 per cento dai jihadisti di Al-Nusra e di Isis, e per il restante 20 per cento da altri gruppi ribelli. L’equilibrio di forza fra queste tre componenti muta quasi ogni giorno, ecco la situazione come si presenta al momento.Progressi jihadisti Dopo la sconfitta subita a Kobane da parte dei peshmerga curdi, Al-Nusra e Isis sono riusciti, da gennaio, ad ottenere due risultati di rilievo conquistando gran parte della provincia di Idlib, a Nord, e respingendo l’assalto dei siriani nel Sud, sul Golan. Il mancato successo sul Golan si deve alla debolezza dei contingenti che Assad può muovere, ed anche al contributo di gruppi ribelli filo-occidentali, mentre la sconfitta a Idlib è frutto di una più intensa cooperazione sul campo fra gruppi islamici. Fonti di Ankara affermano che, in questa occasione, anche gruppi di ribelli filoturchi e filo-sauditi hanno cooperato, dando vita al nuovo «Esercito di conquista» guidato da Al-Nusra. Idlib è uno snodo strategico fra Damasco e la costa roccaforte degli alawiti, il gruppo etnico a cui appartengono gli Assad. L’aeroporto di Damasco Isis e Al-Nusra hanno proprie unità a meno di 20 km dallo scalo internazionale di Damasco. Incontrano aspra resistenzama questo fronte è quello che preoccupa più Assad. Senza l’aeroporto il regime sarebbe imbottigliato, perdendo la principale porta di ingresso di rifornimenti di armi da Teheran e Mosca. Nei pressi dell’aeroporto si trovano grandi depositi di armi del regime e i jihadisti puntano a impossessarsene.Il tentativo di prendere l’aeroporto è l’elemento fondamentale nell’offensiva del fronte centrale dei ribelli che sono riusciti, insediandosi nel campo palestinese di Yarmuk alla periferia della capitale, a posizionare i mortai a distanza di tiro dai palazzi del regime. Il fronte di Qalamoun A conti fatti l’unica frontiera internazionale che resta inmano ad Assad è quella con il Libano, dove nella valle della Bekaa gli alleati Hezbollah hanno la roccaforte. Da qui l’importanza della battaglia in atto suimonti diQalamoun, fra Siria e Libano, dove almeno 3500 jihadisti di Al-Nusra e Isis si sono insediati, lanciando attacchi a valle in Libano, catturando ostaggi ed accumulando rifornimenti. Per Hassan Nasrallah, sceicco di Hezbollah, «la battaglia di Qalamoun è decisiva» perché solo vincendola la continuità territoriale con le forze siriane resterà assicurata. L’offensiva lanciata da Hezbollah e siriani il 6maggio, su entrambi i versanti di Qalamoun, è riuscita a isolare i jihadisti sunniti in tre sacche di territorio ma si tratta di territori impervi, con gole e picchi di oltre 2000metri.Espugnarli prenderà tempo e comporterà perdite pesanti per tutti. Aleppo divisa metà La più popolosa città siriana è teatro di una guerra di attrito fra filo-Assad e islamici, che se ne dividono il controllo. Entrambe le parti tentano di avanzare, senza successo. E ciò ha determinato un aumento di attacchi e violenze contro i civili. È Aleppo l’area dove, secondo l’Osservatorio sui diritti umani in Siria, si registra il maggior numero di vittime e la situazione dei civili assediati è «disperata». Rinforzi per i ribelli In Giordania ed in Turchia gli americani stanno addestrando almeno 10 mila ribelli, puntando a farli entrare in combattimento per dare l’ultima spallata al regime di Assad.
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