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Clandestina «Quello che sto vivendo non ha la benché minima influenza su di me, sulla mia anima, sulla mia persona». In questa frase, pronunciata silenziosamente nel 1942, in una buia e fredda sera di Berlino, da Marie Jalowicz Simon, una giovane ragazza ebrea di vent’anni di non lontane origini russe ma nata in Germania, è condensato il senso di Clandestina , una delle testimonianze più insolite e sconvolgenti della Letteratura della Memoria. Questo libro, infatti, non racconta l’orrore dei campi di concentramento e di sterminio; racconta quello che viene prima: l’inesauribile banalità del male, con la quale non si finisce mai di essere complici, dalla quale un giorno non casualmente sorge l’orrore. E la volontà di non arrendersi: a ogni costo. Proprio come decide di fare Marie appena entrata nella baracca dell’operaio storpio al quale è stata letteralmente «venduta». I suoi genitori madre casalinga, padre avvocato, sono morti. La sua numerosa famiglia, una agiata e anche colta famiglia borghese, si è dissolta. L’appartamento di Rosenthaler Strasse, coi suoi bei mobili e il parquet tirato a lucido — nel quale insieme agli zii e alle zie e ai cugini (allegri e ben vestiti) durante il Seder pasquale si cantava attorno al tavolo e veniva narrato l’esodo degli Ebrei dall’Egitto, e dopo il consommé si mangiava la trota blu, e poi si mangiavano leccornie russe e dolci venuti dalla famosa pasticceria Dobrin — è completamente dissolto. Lei è rimasta sola. Ma ha rifiutato tutto: ha rifiutato di indossare la stella gialla; si è licenziata dalla fabbrica di bulloni nella quale veniva trattata come una bestia; aiutata dalla resistenza ebraica e da quella tedesca ha contraffatto i suoi documenti, ha cercato di fuggire ed è tornata indietro; ha bussato a una infinità di porte; ha cambiato una infinità di nascondigli; ha subito ogni tipo di degradazione. Ora è nella baracca dell’operaio storpio che vorrebbe ammazzare tutti gli ebrei e ha comprato una donna che gli prepari da mangiare. E lei non si arrende. Dovrà aspettare — per dire: sono libera, sono viva — il 23 aprile del 1945, il giorno in cui l’Armata Rossa entrerà a Berlino. Clandestina è il racconto dettagliato, privo di ogni retorica e reticenza, di questi lunghissimi anni d’attesa e di sgomento. E di quelli che li precedono. E hanno date che appartengono alla Storia. E tuttavia, per le incredule vittime della persecuzione, cominciano incredibilmente un giorno, all’improvviso. Come accade a Marie. È il 1933. Marie ha undici anni. Frequenta il Sophien-Lyzeum. Un giorno, la sua insegnante di matematica, la professoressa Draeger, vede davanti alla porta della classe (e come lei lo vede tutta la classe) due uomini in borghese e diventa pallida come un cencio. «Lei ha parenti ebrei» le dicono, mettendole le manette. Berlino e i berlinesi, intanto — la smagliante città circondata di laghi e di boschi che conosciamo dai primi romanzi di Nabokov e dai racconti di Isherwood — continuano a vivere come se al di là dell’ottuso spazio quotidiano non esistesse niente. Gli ebrei vengono deportati, sono assediati come topi in una scatola senza buchi, si nascondono, soffrono la fame fino al delirio, si incontrano per strada e fingono di non riconoscersi abbassando gli occhi, si aiutano e si tradiscono, mettono su dei dischi e ballano disperatamente, convivono con oscene megere che ignorano chi sono e vorrebbero soltanto la loro morte, si rompono i denti sul pane duro come il marmo, piangono di fronte a una torta come non hanno pianto per la morte della madre e del padre, scompaiono. I berlinesi, quasi tutti (ma non tutti, perché ci sono anche gli antinazisti, pochi, e i comunisti che resistono e per aiutare gli ebrei rischiano la vita), perdono i figli, fanno la fila davanti ai negozi delle verdure e della carne, ascoltano alla radio che i loro soldati muoiono a Stalingrado, vanno al cinema a vedere i film di Marika Roekk, sfilano per le strade a passo di marcia convinti della vittoria finale, si riparano nei rifugi antiaerei, vedono i palazzi della grande capitale crollare uno dopo l’altro e — come se al di fuori di quello spazio quotidiano, preda ormai di una specie di follia collettiva, non esistessero altro che fantasmi — procedono verso il vuoto. Innumerevoli sono gli episodi che potrebbero essere citati per descrivere e dare la sensazione mozzafiato di questo libro che invece deve essere letto senza saltare neppure una riga, da capo a fondo. Ce n’è uno, però, che per come rende omaggio alla grandezza di questa sperduta ragazza ebrea gelosa della sua anima, non si può tralasciare. Siamo quasi agli ultimi giorni. In una stanza segreta dell’appartamento in cui Marie ha trovato rifugio, il suo compagno ha istallato un rudimentale apparecchio radiotrasmettitore con il quale si possono ascoltare le emittenti straniere e la famosa campana di Radio Londra con quei rintocchi che aprono il cuore. Un giorno, mentre sta risuonando l’allarme, nei sibili delle onde sonore che attraversano il Mediterraneo, i Balcani e arrivano a Berlino, Marie coglie queste due parole: Po Jeruschalajim, che significano: qui Gerusalemme. L’emozione è troppo forte. La ragazza che ha nascosto tutto di se stessa, fin quasi al cinismo, esplode e grida: «Chawerim, compagni, sono rinchiusa nell’appartamento pieno di cimici di una nazista di nome Blase insieme a un olandese impossibile. Ma voglio vivere, lotto, faccio il possibile per sopravvivere. Shalom, Shalom!». Poi si sentono altri brandelli d’ebraico. E la linea cade. Marie Jalowicz sopravvisse. Si sposò con un inglese, Simon e volle rimanere a Berlino, dove all’università ebbe una cattedra di Storia Antica. Pare che le sue lezioni fossero bellissime. Morì nel 1998. Il libro che ora leggiamo, è la trascrizione di una serie di registrazioni fatte da suo figlio prima della morte. Lei, prima di queste registrazioni, come tutte le persone che sanno quanto è difficile spiegare la sostanza delle cose, per mezzo secolo aveva taciuto. Giorgio Montefoschi - Corriere della Sera |
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