Riprendiamo da LIBERO di oggi, 15/05/2015, con il titolo "Non ama l'islam: i Berliner scartano il direttore più bravo del mondo", l'analisi di Filippo Facci.
Ripubblichiamo, come introduzione all'articolo di Filippo Facci, la lettera di un lettore a IC e la nostra risposta:
Ho letto che i Berliner hanno respinto la candidatura di Christian Thielemann a direttore della Filarmonica. Se ricordo bene, costui è stato allievo di Herbert von Karajan, sfuggito ai processi ai collaboratori nazisti, nascosto in una famiglia milanese, in attesa di riapparire in pubblico in tempi meno pericolosi (per lui). Thielemann cercò anche di riabilitare il musicista nazista Hans Pfitzner. Mi sembrano credenziali più che sufficienti per respingerne l’elezioni. Che ne pensate ?
Fabrizio Weissbrot
Abbiamo letto anche noi le motivazione che lei ha citato, ci pare più che motivato il no espresso dall’orchestra. Che poi il medesimo possa avere altre opinioni più o meno discutibili, può essere. Vista la sua età non può essere accusato di essere stato un collaborazionista del nazismo, ma di avere opinioni e stima verso von Karajan e Pfitzner sì. Le responsabilità di molti intellettuali verso il nazismo hanno giovato più del semplice soldato SS a ripulire l’immagine del Terzo Reich nei confronti dell’opinione pubblica mondiale. Quasi nessuno di loro ha pagato per quella complicità.
Aggiungiamo che Filippo Facci si guarda bene dallo scrivere tutto ciò nel suo articolo, che dunque risulta gravemente lacunoso.
Ecco l'articolo:
Filippo Facci, Herbert von Karajan
Christian Thielemann
La prima orribile verità è che uno come Herbert von Karajan, oggi, non verrebbe eletto direttore principale dei Filarmonici di Berlino: troppo conservatore, borghese e reazionario, troppo compromesso con il passato e con una certa idea di Germania. Ma lui almeno lo era, compromesso: come lo era Wilhelm Furtwängler, ultimo grandioso direttore tedesco che i Berliner abbiano avuto (Karajan era austriaco), prima che prendessero spazio direttori che tutto sono stati, ecco, ma grandiosi proprio no. È la seconda orribile verità: che la correttezza politica, nella progressista Berlino, ha già avuto la meglio anche nella nomina di Claudio Abbado e di Simon Rattle, gli ultimi due direttori principali: e allora di che parliamo?
Parliamo di Christian Thielemann, direttore tedesco che culturalmente e musicalmente è indubbiamente il più dotato - anche per mancanza di avversari -ma è già stato giudicato «non politicamente sostenibile» da buona parte della stampa tedesca e, soprattutto, dai 124 musicisti della più famosa orchestra sinfonica del mondo. Piuttosto che votarlo, l’orchestra ha preferito non votare e rimandare la nomina di qualche mese. E ora, magari, potremmo metterci a parlare di musica, di come Thielemann sia considerato il più grande direttore tedesco vivente e di quando - ce lo ricordiamo - passò dall’orchestra di Santa Cecilia e poi dal Comunale di Bologna, questo prima di approdare alla Filarmonica di Monaco, alla Deutsche Oper di Berlino, alla Staatskapelle di Dresda e al mitico Festival wagneriano di Bayreuth.
Ma qui la musica non c’entra, altrimenti Thielemann - semplicemente il migliore, soprattutto nel fondamentale repertorio romantico - sarebbe già su quel podio. C’entrano altre cose: il conformismo berlinese, la nuova Germania, o meglio, l’idea di una nuova Germania e di un politically correct che ormai sta dilagando anche nelle dimensioni meno giustificate e meno conservatrici. Ed ecco in rassegna le presunte colpe di Christian Thielemann: è sicuramente un tedesco, ma proprio un tedesco, che veste come un tedesco,enfio come un tedesco, la maglietta sotto la camicia, tarantolato di musica, un po’ schizzato, diplomazia poca, un busto di Federico il Grande sulla scrivania, un altro di Richard Strauss sul pianoforte, un prussiano. Thielemann non è un progressista come Claudio Abbado, non ha mai organizzato «concerti per i lavoratori» negli anni della contestazione, non ha mai scritto memorabili lettere pro Cuba sul Corriere della Sera.Thielemann ha dichiarato che «la democrazia non c’entra niente con un’orchestra» - com’è stravero e come tutti sanno: ma guai a dirlo - e dopo la strage di Charlie Hebdo non ha lesinato un certo anti-islamismo; ha parlato di «crisi dei valori su cui si fonda la nostra comunità, valori borghesi come la libertà di stampa, l’interazione tra arte e cultura che ci insegna a rispettare le idee altrui», addirittura ha parlato di «famiglia, decenza, onestà e rispetto».
Ma ciò che a Thielemann è costato il posto di direttore, probabilmente, l’ha riportato l’altroieri anche Giulio Meotti sul Foglio. Lo riproponiamo per esteso: «L’islam appartiene allaGermania? Forse un giorno la cristianità apparterrà alla Turchia e l’ebraismo al mondo arabo. Ma fino ad allora dobbiamo poter rispondere di no, senza passare per fascistoidi, populisti di destra o intolleranti... Trovo inaccettabile che un giovane di origine araba gridi di fronte al proprio insegnante di sesso femminile che non ascolta le donne. Altrettanto inaccettabile che la gente, a causa dei loro nomi non tedeschi, del loro colore della pelle o della loro religione, non riesca a trovare un posto dove vivere. Entrambi i casi dimostrano in quale stato incerto e brutalizzante la nostra società versi. La nostra libertà di parola è qualcosa cui non dobbiamo rinunciare di fronte al terrorismo. Cosa significa libertà in una società aperta e illuminata? Cos’è la tolleranza? Dovremmo dire addio ad alcune libertà perché non riusciamo più ad avere a che fare con esse? Quando suoneremo lo Stabat Mater di Rossini, ognuno di noi dovrà pensare ad Auschwitz e Hiroshima, all'11 settembre e a Charlie Hebdo. E coloro che non hanno coraggio, lo troveranno».
Anche solo questo sarebbe sufficiente, anzi. Chiaro che uno così non piaccia ai nuovi tedeschi, complessati a vita per il loro passato, quella Germania che fu culla del pensiero e ora parcheggia la mountain bike fuori dai centri commerciali. Nel dubbio, meglio il multiculturalismo di Daniel Barenboim o del venezuelano Gustavo Dudamel: le questioni musicali vengono dopo. Vennero dopo, del resto, pure a margine dell’elezione del dimissionario Simon Rattle, col risultato che la traccia più memorabile della sua reggenza resterà l’introduzione di Rameau e della musica francese in repertorio. Wow. Il classico antidivo che non correva rischi di diventarlo, così “leggero” e “trasparente” che già fatichiamo a ricordarlo. Come l’identità culturale dell’Europa.
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