Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 13/05/2015, a pag. II, con il titolo "In lode dell'irriverente texana che irride Maometto. La libertà dei disturbatori vs. la violenza degli intolleranti", l'analisi del Wall Street Journal.
Pamela Geller
Maometto dallo psicanalista: "Gli altri profeti hanno seguaci con senso dell'umorismo..."
Da quando in qua l’espressione ‘se l’è cercata’ ha guadagnato rispettabilità nell’enciclopedia del politically correct americano?”. Se lo chiede dalle colonne del Wall Street Journal Bret Stephens, premio Pulitzer nel 2013, in un editoriale pubblicato in esplicita difesa di Pamela Geller, l’organizzatrice della mostra-concorso di vignette su Maometto a Garland (Texas), bersaglio lo scorso 3 maggio di un attacco terroristico da parte di due militanti islamisti.
Secondo il columnist del Wsj, il modo con cui Geller è stata messa sul banco degli imputati dai media statunitensi all’indomani dell’attacco terroristico, e dipinta come “un’irresponsabile provocatrice che metterebbe in pericolo consapevolmente, ma inutilmente, la vita delle persone”, ricorda la maniera con cui nel 2011 molti blogger commentarono la notizia dello stupro subìto dalla cronista della Cbs, Lara Logan, in piazza Tahrir al Cairo, sostenendo l’incoscienza di quest’ultima nel pretendere di fare il suo lavoro, “bionda e carina” com’era, nel bel mezzo di una folla di maschi gaudenti per la fine di Mubarak.
Tra i tanti accusatori di Geller, cofondatrice dell’American Freedom Defense Initiative (Afdi), Stephens riporta le parole di Chris Matthews, testa di punta della Msnbc che, analizzando l’attentato di Garland si è chiesto se questo non sia stato in realtà “causato in qualche modo” dalla volontà dei promotori della mostra di denigrare e prendersi gioco della figura di Maometto. Oppure, se la parola “causato” non piace, per lo meno “provocato”, “incitato”, “cercato” dagli stessi attivisti dell’Afdi. Modi ambigui e politicamente corretti, secondo Stephens, per dire che questi, in fondo, la sparatoria “se la siano cercata”. “Il problema di Ms. Geller – sostiene l’editorialista del Wsj – è che lei critica l’islam politico all’incirca allo stesso modo in cui lo fa Bill Maher, eccetto per il fatto che la politica di lei tende a guardare a destra, mentre quella di lui a sinistra. Col risultato che la prima risulta essere una violenta fomentatrice d’odio, mentre il secondo un divertente libero pensatore, anche se a volte un tantino eccentrico”.
A ben vedere, infatti, l’idea fondante della campagna anti islam di Geller sarebbe per Stephens la stessa degli scomparsi vignettisti di Charlie Hebdo, vale a dire la convinzione “che la risposta più appropriata alla violenza islamista sia una mordace derisione pubblica”. Eppure, nota il premio Pulitzer, non si vedono finora molte persone abbandonarsi nella pratica del “je-suis-ing” a sostegno di Pam Geller, “forse perché prendere in giro Maometto è accettabile solo se si prende in giro nello stesso momento anche Gesù, Mosè e Buddha”. Il punto su cui occorre riflettere, tuttavia, non riguarda tanto il contributo sostanziale che Geller può fornire al dibattito pubblico, minimizzato con ironia dallo stesso Stephens, bensì il prendere atto di una verità ben precisa, e cioè che “una società sana ha bisogno dei suoi tafani, che contribuiscono più con le loro punture che con i loro ronzii”, e la Geller “è uno di questi tafani”.
In particolare, la cofondatrice di Afdi starebbe instillando in noi, intenzionalmente o no, una lezione di voltairiana memoria, ossia che “il discorso che più di tutti merita di essere difeso è proprio quello con il quale noi siamo meno d’accordo”, e “ciò è ancora più importante quando i nemici della libertà di espressione – in questo caso i fanatici musulmani – invocano il pretesto dell’offesa morale per infliggere danni corporali”. “Una società che rifiuta il veto del disturbatore, non può accettare il veto dell’assassino semplicemente perché quest’ultimo è pronto ad andare all’estremo per mettere a tacere il suo oppositore”. Ancora di più se l’opposizione islamista alla pubblicazione dei ritratti di Maometto non costituisce l’unica obiezione agli usi occidentali, che invece si estende a molte altre “perversioni” prodotte dai nostri assetti liberal-democratici, col rischio di una possibile escalation distruttiva delle nostre tradizioni: “Se la rispettosa opinione pubblica americana dovesse riconoscere la legittimità di protestare contro le vignette, altre proteste seguirebbero”.
Contro l’usanza, per esempio, dei non-musulmani di mangiare in certi quartieri durante il Ramadan, o fino al punto di negare, una volta messe al bando le immagini, la libertà di critica nei confronti dell’Islam anche in forma scritta. Giacché “i prepotenti sanno che la chiave della dominazione sta nella prima intesa conciliatrice di sottomissione”. E non può negarsi che la Geller, di tutto ciò, sia consapevole. Per quanto riguarda, inoltre, l’accusa di mettere a rischio la vita delle persone, la stessa allusione – nota Stephens – potrebbe essere sollevata nei confronti di Condé Nast, colosso editoriale simbolo dell’occidente con le sue pubblicazioni storiche (da Vogue a Vanity Fair), che di recente ha spostato la propria base operativa nel nuovo World Trade Center a Manhattan.
E’ stato anche sostenuto che riviste rispettabili non pubblicherebbero mai il genere di vignette mostrate nella conferenza organizzata da Geller, ma in fondo “la sua è una battaglia per la libertà, non per la rispettabilità”. In definitiva, la vicenda che vede coinvolta Geller ci insegna che, “di tanto in tanto, noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci ricordi che la libertà di espressione non è una parola d’ordine da invocare religiosamente, ma un diritto che necessita di essere esercitato affinché possa sopravvivere come tale. Pam Geller potrebbe non essere la studiosa più erudita sul medio oriente, o la più raffinata paladina del Primo emendamento. Eppure, ancora una volta, lei lo sta difendendo, a fronte di un considerevole rischio personale. Può Chris Matthews sostenere di fare lo stesso?”.
(A cura di Ermes Antonucci)
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