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La Stampa Rassegna Stampa
12.05.2015 Menashe Kadishman, l'artista 'pastore' che condusse il suo gregge alla Biennale
Elena Loewenthal intervista il gallerista Ermanno Tedeschi sull'artista israeliano

Testata: La Stampa
Data: 12 maggio 2015
Pagina: 27
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Il 'pastore' che portò il suo gregge alla Biennale»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 12/05/2015, a pag. 27, con il titolo "Il 'pastore' che portò il suo gregge alla Biennale", l'intervista di Elena Loewenthal al gallerista Ermanno Tedeschi sull'artista israeliano Menashe Kadishman.

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Elena Loewenthal, Ermanno Tedeschi


Menashe Kadishman

«A volte per sentire il profumo di un fiore bisogna chinarsi», sta scritto in calce al dipinto del museo di Tel Aviv accanto al quale è stata deposta la sua bara: la giraffa si piega dolcemente per accostare le narici a un piccolo fiore blu. E lui, Menashe Kadishman, grande artista israeliano morto qualche giorno fa, era proprio così. Con quella sua gentilezza profonda dietro un’aria ispida da sabra, nativo israeliano come i fichi d’India che sono spinosi fuori e dolcissimi dentro. Era difficile, se non impossibile, non volergli bene. Ermanno Tedeschi, il dealer torinese che ha curato molte sue mostre, di bene gliene voleva tanto e l’ha conosciuto a fondo.


Le pecore, il soggetto preferito di Kadishman


Kadishman non era solo un artista, era anche una persona speciale, non è vero?
«Certo. A incominciare dall’apparenza. Aveva sempre addosso pantaloncini corti e camicia bianca. Tipica tenuta degagé all’israeliana... ma lui la camicia la portava abbottonata all’interno: diceva che l’avrebbe rivoltata per il verso giusto il giorno in cui verrà la pace. E’ morto con la camicia abbottonata all’interno… ma era davvero e innanzitutto un uomo di pace, nel senso più pieno del termine. Comunque mi ricordo quando andammo in visita ufficiale in Campidoglio, in occasione di una sua mostra: neanche allora rinunciò alla sua tenuta classica. Era un grande uomo, per me è una grande perdita. Andavo spesso a trovarlo nella sua casa di Tel Aviv, dove dipingeva non di rado dal letto, se si trattava di piccole tele. La stanza era piena di pelouche e balocchi: collezionava giocattoli e condividevamo questa passione. C’era sempre un grande viavai in quella casa, come capita dove abita un maestro, una persona che è importante nella vita di tanti».


Kadishman alla Biennale di Venezia del 1978 con un gregge di pecore


Come tratteggia in poche righe un profilo di questo artista certamente fuori dagli schemi?
«A incominciare dalla sua biografia… Nasce a Tel Aviv nel 1932 ma facendo il servizio militare in fanteria viene “folgorato” dall’incontro con le pecore, nelle campagne del kibbutz Mayan Baruch. Fa il pastore per alcuni anni, studia arte in Israele, nel 1959 va a Londra a frequentare la Saint Martins, ma vi resta fino al 1972. In quel periodo entra nel giro di Andy Warhol, Rauschenberg e Christo. Nel 1978 porta alla Biennale di Venezia il suo gregge – vivo, vero e colorato: straordinaria performance di living art che viene ricordata anche nel film Vacanze Intelligenti di Alberto Sordi. Kadishman è stato pittore ma anche scultore. Al museo ebraico di Berlino c’è una sua straziante installazione: teste di ferro che il visitatore calpesta producendo un rumore che è un lamento viscerale. Un approccio “esperienzale” alla Shoah che turba profondamente il visitatore».

La sua firma, la sua icona è però la pecora. Che cosa può raccontare di questo leitmotiv?
«Innanzitutto che non ce ne sono due uguali! Ricordo la prima mostra che allestimmo in Italia. Erano circa centocinquanta dipinti, tutti di pecore, ma tutte diverse. Kadishman guardava con nostalgia a quel momento fondamentale della sua vita in cui aveva fatto il pastore di gregge. La pecora è simbolo della terra, della natura, del nostro bisogno di natura. Ma è anche l’animale sacrificale per eccellenza: in questo il suo ruolo è, per così dire, interreligioso. Le pecore di Kadishman hanno poi un volto schiettamente umano, anche se non sono delle semplificazioni per raffigurare l’umanità. Ne ha fatte davvero di tutti i colori: la pecora talebana, quella fiorata, quella triste. Ci sono pecore materiche, perché lui amava molto le tecniche miste, inseriva terra, sassi, sostanza nei suoi quadri. Accanto a questa produzione, c’è quella “pesante”, di scultore: opere monumentali, come “Uprise”, una statua di 15 metri nella piazza del Teatro nazionale, a Tel Aviv. Quando papa Giovanni Paolo II andò in visita in Israele, gli fu donata una sua scultura. In un certo senso, la sua opera era l’anima d’Israele».

E aveva radici molto profonde, proprio come Israele, «Altneuland», terra vecchia e nuova dove si rinasce e si torna alle origini bibliche, non è così?
C’è molta materia biblica nei suoi lavori. Il sacrificio di Isacco è un tema ricorrente. Così come la colomba che torna all’arca di Noè per annunciare che il diluvio è finito. C’è tutta una sua serie di installazioni intitolata “motherland”, rappresentazione di Israele. E anche le sue pecore ci riportano a un paesaggio remoto, quello delle origini: prima di diventare re, Davide faceva il pastore, giusto per citare un esempio fra i tanti. Declinato da questo artista, il messaggio biblico ha tanta forza quanta dolcezza. Mancherà alle sue pecore e a tutti noi, Menashe Kadishman».

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