Riprendiamo dalla STAMPA - TUTTOLIBRI di oggi, 01/05/2015, a pag. IV, con il titolo "Per scordare i missili mi nascondo nel panino", la recensione di Elena Loewenthal.
Elena Loewenthal
Etgar Keret, autore di "Sette anni di felicità"
L’autobiografismo è sempre un terreno minato. E’ spesso anche una tentazione, per chi scrive storie. Neanche troppo di rado, un vizio inconsapevole. Scrivere di sé, in fondo, sembra più facile che scrivere di tante altre cose. Per due illusioni: quella di conoscersi e quella di avere una vita speciale. A volte, tentare un’autobiografia è una buona terapia per iniziare a capire che nessuna di queste due cose è vera.
Etgar Keret in Sette anni di felicità appena pubblicato da Feltrinelli nella traduzione dall’inglese di Vincenzo Mantovani, parte da presupposti affatto diversi. E meno male. I brevi capitoli di questo libro esilarante, toccante, divertente e commovente sono costruiti all’insegna della normalità. Cioè della sua, di «artista» (uno che scrive, non sa riparare i tubi di casa, ha un sacco di tempo libero, ma almeno è un creativo) che diventa padre di Lev – un nome che in ebraico significa «cuore» – e prende appunti dalla vita quotidiana, la racconta per quello che è. In quella sua irriducibile frammentarietà che è l’unica vera cifra di una vita «normale» e l’unico modo efficace per raccontarla.
Keret è nato nel 1967, è il più affermato scrittore della nuova generazione israeliana, spicca per la sua ecletticità e il modo in cui attraversa i generi d’espressione, dal cinema al fumetto alla narrativa. Predilige la forma del racconto, della narrazione breve. Ha un talento praticamente unico per il paradosso, per cogliere il lato tanto assurdo quanto convincente della realtà che lo circonda. Quel che è certo è che non è un tipo sportivo.
«La verità è che io ho fatto yoga, qualche anno fa... con una combriccola di donne in avanzato stato di gravidanza. In effetti fu una cosa bellissima, la prima volta dopo un sacco di tempo che io ero quello con la pancia più piccola di tutti». Perché se scrivere di sé è difficile – o meglio, sembra facile ma è tutto il contrario -, far ridere un lettore lo è ancora di più. E Keret ci riesce con la narrazione di una normalità, come dire, un po’ speciale. Suo figlio Lev, infatti, viene al mondo fuori tempo in due sensi. Il primo è che sua madre rompe le acque inaspettatamente, su un taxi con un conducente ossessionato dalla pulizia. Il secondo è che contemporaneamente succede un’altra cosa, e in ospedale c’è un gran trambusto. «”Come odio questi attacchi terroristici, “ dice l’infermiera magra a quella più anziana. “Vuoi una cicca?”».
Da quel momento in poi, la normalità di Etgar, sua moglie Shira e il piccolo Etgar è segnata. Come è segnata per chiunque abiti in quel lembo di terra dove la vita quotidiana sa essere il più delle volte un concentrato di confortante banalità e inimitabile senso di imprevedibilità. Tutto sommato, più interessante che altrove. Etgar, ad esempio, ha un fratello maggiore geniale, passato per tutto l’arco parlamentare delle esperienze di vita, dall’illuminazione religiosa alla matematica al no profit in Thailandia. E una sorella maggiore che tanti anni fa è diventata ultrareligiosa e vive a Mea Shearim. Un padre che ha conosciuto la madre in circostanze a dir poco strane.
Sette anni di felicità scorre così sotto gli occhi del lettore: lo diverte, lo sorprende, lo commuove. Le pagine sul padre sono straordinarie. Ma anche quelle in cui racconta come si inventa le dediche per i libri, e quelle in cui va a parlare alla maestra di Lev e scopre uno strano traffico di cioccolata. O quelle in cui scaccia la paura dei missili scud facendo fare a suo figlio la parte dell’insaccato dentro un panino. Più che un libro, è uno strabiliante condensato di umanità scandito dalla crescita di Lev, dai viaggi di Etgar, dalle caustiche battute di Shira, da quel senso di emergenza che in Israele sarà forse più pressante che altrove. Ma che in fondo è la comune coscienza di una imprevedibilità della vita con cui tutti dobbiamo fare i conti.
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