Riprendiamo dal SOLE 24 ORE di oggi, 24/04/2015, a pag. 22, con il titolo "La mano tesa verso la Turchia", il commento di Alberto Negri.
IlSole24Ore - almeno in questo caso- non antepone le ragioni degli scambi commerciali e critica apertamente il negazionismo turco.
Alberto Negri
Un massacro di armeni compiuto dai turchi
Nelle commemorazioni del genocidio armeno storia e politica si incrociano generando scintille che si riflettono sull’attualità, tra bagliori di guerra e manovre diplomatiche. Armeni e turchi oggi si combattono a colpi di anniversari. A Yerevan si ricorda il Metz Yeghérn, il Grande Male, le stragi del 1915; a Gallipoli, con un giorno di anticipo sul calendario storico (25 aprile), viene celebrata la battaglia che oppose l’Impero ottomano alla coalizione guidata da inglesi e francesi. E come un tempo, quando alla fine della Belle Epoque le cancellerie occidentali si muovevano come sonnanbuli tra saloni ovattati e campi di battaglia, le truppe si schierano sul campo pensando a vantaggi immediati e futuri.
Putin e Hollande vanno in Armenia e approfittano dell’occasione per una bilaterale sull’Ucraina; i turchi vantano oggi a Gallipoli la presenza del Principe Carlo e del premier australiano Tony Abbott. Sono stati questi giorni di alta tensione diplomatica. La Turchia, dopo l’ambasciatore in Vaticano, ha richiamato ieri anche quello da Vienna, quando il Parlamento ha riconosciuto il massacro di cento anni fa degli armeni come un genocidio, definizione che Ankara non accetta.
Ma la rivincita turca si è consumata oltreatlantico. Mentre la cancelliera Angela Merkel approvava la parola genocidio per i massacri del 1915 - passo non indifferente nel Paese dell’Olocausto e con la presenza di una forte minoranza turca - gli armeni subivano dalla Casa Bianca la delusione più cocente. Il presidente Barack Obama ha informato la diaspora armena in Usa che non userà questa parola con la quale Papa Bergoglio aveva scatenato le scomposte reazioni di Ankara.
Anche di fronte a un genocidio è la realpolitik a dettare la linea. Washington ha fatto appello a un “pieno riconoscimento delle stragi” degli armeni ma il termine non è entrato nel lessico diplomatico degli Stati Uniti per timore di irritare la Turchia, membro della Nato che l’America vorrebbe coinvolto nella soluzione della guerra in Siria e nella lotta al Califfato. Puntualmente il presidente turco Tayyep Erdogan si è mostrato assai soddisfatto della mossa di Obama affermando, per la prima volta, che le milizie jihadiste sono un «virus» distruttore della comunità islamica: una buona opportunità, afferrata al volo, per un leader che non ha mai concesso le basi agli americani per combattere gli islamici ed è stato accusato di aver fatto passare in Siria migliaia di foreign fighters. Ora che Turchia e Stati Uniti negano il genocidio armeno forse possono fare la guerra assieme ai barbari tagliatori di teste.
Ma cosa accadde cento anni fa? Un evento abnorme che a pochi passi dall’Europa fece un milione mezzo di morti armeni. Tutti sapevano. Il 24 maggio 1915, a quasi un anno dall’inizio della prima guerra mondiale, Francia, Gran Bretagna e Russia sottoscrissero una dichiarazione congiunta che condannava i massacri degli armeni da parte dello stato ottomano. «Di fronte a questo crimine della Turchia contro l’umanità i governi alleati avvisano la Sublime Porta che riterranno responsabili tutti i membri e i funzionari del governo che avranno partecipato ai massacri».
È questa la prima volta che si parla di “crimini contro l’umanità”, anche se la parola genocidio venne inventata soltanto nel 1944 da Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, esperto proprio delle stragi degli armeni. Con l’esercito ottomano allo sbando e timoroso per le rivolte interne, fu Talat Pasha, uomo forte del Comitato dei Giovani Turchi al potere, a ordinare le deportazioni degli armeni, accompagnate da violenze inaudite. A commetterle furono gruppi paramilitari, soldati dell’esercito regolare, i clan curdi e di altre popolazioni musulmane non turche (Circassi, Ceceni, Tatari).
Gli armeni vennero in gran parte deportati in Siria: quando le truppe britanniche nel 1919 entrarono nel campo di Der ez Zhor di 200mila prigionieri ne erano rimasti meno di un migliaio. Il genocidio fu il frutto avvelenato del nazionalismo ottocentesco attecchito nell’Impero ottomano dove cristiani, armeni, ebrei, arabi e dozzine di altre etnie e religioni avevano convissuto per secoli. Tra i testimoni di quella tragedia vi fu allora anche l’ambasciatore americano di origine ebraica Morgenthau e il console italiano di Trebisonda Giacomo Gorrini che con grande tempestività nel 1915 denunciò i crimini del governo turco rilasciando una dettagliata intervista al Messaggero, battendosi poi per il riconoscimento dei diritti dei sopravvissuti e la costituzione di un nuovo stato armeno. La sua terra tombale è tumulata a Yerevan nel “Muro della Memoria”.
Eppure Turchia e Armenia, nonostante il passato e il bruciante presente, ancora incandescente per la questione dei confini e del Nagorno Karabakh, possono e devono pacificarsi. Lo sostiene una studiosa armena come Melina Toumani sul New York Times: «L’Armenia se vuole crescere deve uscire dal suo isolamento». E lo stesso presidente armeno Serzh Sarksyan ha detto di essere pronto a normalizzare le relazioni con Ankara «senza precondizioni». Forse aveva ragione Sant’Agostino: qualsiasi evento storico, per quanto nefasto possa essere, ha sempre un significato costruttivo.
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