Riprendiamo dalla Stampa di oggi, 20/04/2015, a pag. 1-7, con il titolo "L'esodo di un popolo senza patria", il commento di Domenico Quirico.
Domenico Quirico
Quanto è davvero gigantesca la distanza che ci separa da loro! Siamo, nel Mediterraneo, a uno di quei momenti nei quali la definizione umana che abbiamo prestato alle cose scompare mentre esse ci guardano con tutta l’ostilità e la orribile, primitiva estraneità che di solito è velata dalle illusioni. Coloro che si muovono, e muoiono in mare, a centinaia, non sono più rivoli di fuggiaschi, esuli, sopravvissuti. Sono popoli interi che si sono freneticamente messi in movimento.
Tutto crolla, parti del mondo, in Africa soprattutto, nel Sahel, nel vicino Oriente, si svuotano e restano in ostaggio al silenzio, alle case vuote e saccheggiate o distrutte; i campi si ricoprono di sabbia e gli alberi da frutto inselvatichiscono, orfani dell’uomo. I deserti si fanno davvero vuoti, e sulle montagne le ossa dei morti, quelli che non sono arrivati all’ultimo passo, imbruniscono con le pietre. Tutto crolla.
Nessun nome è più adatto. Un mondo minaccioso senza nome, e perciò colmo di indefinita angoscia, è in agguato. La sanguinaria semplificazione dei fanatismi, divinità diventate crudeli e guerriere, rimettono in moto le lunghe colonne dei fuggiaschi.
È la Grande Migrazione del terzo millennio: primitiva, brutale e inarrestabile come quelle che il Mediterraneo ha visto in altri secoli, fitte di terribili peripezie e tuttavia orribilmente monotone. Non esiste Storia inattuale. Civiltà opulente e soddisfatte ma anche sfiancate e inerti, sono prese d’assalto, con il peso, con il numero, da turbini di uomini che si sono lasciati dietro il passato l’identità, l’anima e non torneranno mai più, ricchi e poveri assaliti dalla stessa angoscia. Trascinati entro una striscia di tenebre come un Oreste con gli urli lontani delle Furie alle spalle. Le migrazioni assomigliano spesso a invasioni, se visti con gli occhi di chi le vede avanzare verso di sé. L’uomo non si ode più nella moltitudine tumultuosa, e sulle spiagge delle partenze si diffonde un rumore di folle invisibili.
La Grande migrazione
Il loro passato è morto, cercano una terra nuova, dei accessibili, consolazioni tangibili: a ogni costo. Noi continuiamo a contarli, a preoccuparci del denaro che si prosciuga per i centri di accoglienza ovviamente «provvisori», speriamo che poi vadano via, ovunque, litighiamo su chi debba pagare. L’accordo con qualche remota tribù, o tirannello, dell’Africa da cui sono partiti perché cerchi di fermarli ci sembra una strategia praticabile. Vediamo la Libia, e dietro c’è la disperazione di un immenso continente. Si invoca, per dare una mano, per pagare, il fantasma dell’Europa: che già si spaventò come per una invasione barbarica, quattro anni fa per qualche migliaio di giovani tunisini migranti senza famiglia, sbarcati a Lampedusa.
Odio questo genere di discorsi: mi paiono inutili. Sono i discorsi per chi non c’è stato, e crede di aver già fatto qualcosa agitandosi. Sono discorsi per chi non si trova nel pericolo. Certo: i luoghi da cui arrivano sono luoghi in cui c’è la guerra, ma per noi sono guerre strane, irreali, la guerra vera è solo quella che si combatte nel proprio Paese. Tutto il resto è irreale. Certo, uomini vengono uccisi e muoiono nella fuga: ma la fantasia non sa contare a lungo, a rigore solo fino a uno, solo fino a quello che ti sta vicino.
Vertigine del vuoto
Il problema è diventata così gigantesco, non solo nei numeri, che forse solo le Nazioni Unite, se mai fossero efficienti e non ansate burocrazia della assistenza, potrebbero occuparsene. C’è da far posto a un popolo nuovo, milioni di persone; non hanno bandiera e passaporto, l’hanno distrutto quando sono partiti. Non lasciar tracce, l’eterna accortezza del fuggiasco. D’altra parte non avrebbe senso. La loro identità è completamente nuova, formata nella tragedia del viaggio, imbevuta in quell’acido cloridrico che è la vertigine del vuoto. I loro averi sono ciò che hanno nelle mani. Se riescono a sopravvivere, alla guerra, ai mercanti di carne umana, al mare, la vita si riaprirà davanti a loro a ventaglio, con un nuovo avvenire, ma anche con un passato, un passato che li può schiacciare facilmente se non lo dimenticano o non sono capaci di superarlo.
Violenze inimmaginabili
I soccorritori chiedono loro i dati normali: il tuo nome, da dove vieni, hai famiglia, hai passaporto... Accostamenti biografici che nella loro assoluta insensatezza non avvicinano la insensatezza di una esistenza sradicata. Come chiedere l’identità anagrafica a un marziano.
Possono diventare qualsiasi cosa, nel bene e nel male. Sono corrotti, sono stati rovinati come le vittime di una esplosione. Qualcuno se l’è cavata con ferite non troppo gravi, alcuni sono stati mutilati, e molti feriti non si riprenderanno più e periranno.
Si è detto che «cercano la felicità»: purtroppo non è così, si soffre meno quando si crede in qualche cosa. Partire ecco la loro unica ideologia. Travolgeranno tutto, non si fermeranno di fronte a nulla, sgretoleranno ogni muro, barriera, ostacolo. Ho visto nell’Africa a sud del Sahara villaggi e cittadine popolati ormai solo di vecchi. Quelli troppo stanchi per camminare, quelli che non potevano sognare di avere abbastanza tempo per arrivare all’ultima tappa. E gli altri? Chiedevo: i giovani i bambini le donne? Un gesto vago ma perentorio della mano verso l’orizzonte: partiti, sono in viaggio. E la mano ricadeva come per chi è inutile ormai aspettare.
Siria ridotta a rovine
Ho attraversato in quella che un tempo fu la Siria e non lo sarà mai più, città distrutte, grandi e piccole, con il silenzio imperioso e definitivo delle rovine. Chi non è stato ucciso, dai soldati dl regime o dai fanatici del jihad, è partito. I campi profughi servono solo per un ultimo grande respiro prima di lanciarsi nel viaggio, a ondate. Non torneranno mai più indietro: come potrebbero spiegare ai loro figli, quelli che si salveranno, che hanno ancora un futuro in quelle rovine dove domineranno con pugno di ferro o regimi fanatici o despoti corrotti?
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