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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
13.04.2015 Genocidio armeno: la Turchia dovrà risponderne
Cronaca di Marta Ottaviani, rav Riccardo Di Segni intervistato da Giacomo Galeazzi, analisi di Antonia Arslan

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Marta Ottaviani - Giacomo Galeazzi - Antonia Arslan
Titolo: «La Turchia insorge: 'Parole inaccettabili' - 'Parole chiare. Ora nessuno potrà fingere di non sapere' - I nostri cento anni di solitudine, un buco nero scavato nella Storia»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 13/04/2015, a pag. 3, con il titolo "La Turchia insorge: 'Parole inaccettabili' ", la cronaca di Marta Ottaviani; a pag. 2, con il titolo "Parole chiare. Ora nessuno potrà fingere di non sapere", l'intervista di Giacomo Galeazzi a rav Riccardo Di Segni; dalla REPUBBLICA, a pag. 4, con il titolo "I nostri cento anni di solitudine, un buco nero scavato nella Storia", l'analisi di Antonia Arslan.

Ecco gli articoli:


Il genocidio armeno, nascosto per cento anni dalla Turchia

LA STAMPA - Marta Ottaviani: "La Turchia insorge: 'Parole inaccettabili' "

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Marta Ottaviani                     Recep Tayyip Erdogan

È una reazione dura e compatta quella della Turchia alle parole di Papa Francesco su quello che nella Mezzaluna chiamano l’Ermeni Soykırım Iddiaları, il cosiddetto genocidio armeno. Il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu, ha bollato le dichiarazioni del Pontefice come «inaccettabili». Mehmet Pacaçi, Ambasciatore di Turchia presso la Santa Sede, è stato richiamato ad Ankara per consultazioni, dopo che, già nella giornata di ieri, il Nunzio Apostolico, Monsignor Antonio Lucibello, era stato convocato al ministero degli Esteri della Mezzaluna. Il rappresentante diplomatico del Vaticano ha parlato di «autorità profondamente dispiaciute e irritate». I siti internet dicono che la risposta di Ankara è appena iniziata e che nei prossimi giorni potrebbero arrivare nuovi segnali.

La rabbia
A giudicare dai toni della Mezzaluna c’è da crederci. Già dalla prima mattina di ieri i quotidiani locali parlavano di «risposta secca» da parte del governo turco. Il quotidiano Hurriyet ha anche rivelato che nei giorni scorsi Paçaci, parlando con alcuni giornalisti turchi in Italia, aveva detto che non si aspettava da parte del Papa riferimenti diretti al genocidio. Le parole di Francesco, quindi, sono arrivate come una doccia gelata, dopo che la sua visita nel Paese, lo scorso novembre, era stata presentata al popolo turco come un grande successo del Presidente Recep Tayyip Erdogan. Anche i social network si sono scatenati e non sono mancati attacchi al Pontefice, accusato di essere un bugiardo e di aver compiuto con le sue parole un passo indietro, allontanandosi dalla pace.

Le dichiarazioni
Il comunicato diramato nella serata di ieri dal ministero degli Esteri è molto duro. Le parole del Capo della Chiesa Cattolica vengono giudicate «lontane dalla realtà legale e storica». Non solo. Papa Francesco viene chiaramente accusato di avere ignorato le sofferenze patite da turchi e musulmani durante gli avvenimenti del 1915, quando, secondo la versione di Ankara, almeno mezzo milione di persone fu ucciso dagli armeni, praticamente un genocidio al contrario. Il Pontefice avrebbe fatto un uso politico degli avvenimenti e con le sue parole si sarebbe allontanato da quel messaggio di pace e fratellanza che aveva lanciato durante il suo viaggio nel Paese della Mezzaluna.

Le elezioni
E mentre Papa Francesco è sotto attacco, in Turchia tutti gli stanno contrapponendo le condoglianze di Erdogan, fatte agli Armeni in occasione dell’anniversario del genocidio dello scorso anno, nelle quali l’allora premier invitava a lavorare per un futuro di pace condiviso, dove però il riconoscimento del massacro unilaterale da parte della Turchia non era contemplato. Un improbabile scambio di ruoli: Erdogan difensore della Pace e il Papa che alimenta divisioni. Gli analisti credono che il governo e il Presidente useranno questo forte motivo nazionalista per risalire nei sondaggi in vista del voto politico del 7 giugno e che la reazione al Vaticano andrebbe letta anche in quest’ottica.

LA STAMPA - Giacomo Galeazzi: "Parole chiare. Ora nessuno potrà fingere di non sapere"


Giacomo Galeazzi    Riccardo Di Segni

«Un secolo fa gli armeni, oggi i cristiani. Dopo le parole molto chiare di papa Francesco nessuno potrà fingere di non sapere», afferma il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni.

Condivide la sua denuncia ?
«Sì. È un fortissimo atto formale, ne sentivamo la mancanza. Papa Bergoglio colma una lacuna per noi ebrei inspiegabile. È in corso un massacro orrendo. Senza svilire l’enorme gravità del fenomeno faccio una precisazione: genocidio significa distruzione di un popolo e i cristiani sono una religione, non un popolo. Migliaia di persone vengono uccise per differenze di religione. E in Africa anche per appartenenza etnica. Finalmente un papa ha parlato in modo inequivocabile. Semmai a stupirci era l’indifferenza delle autorità cattoliche».

Indifferenza per quali casi?
«Come comunità ebraica abbiamo protestato contro il massacro dei cristiani. Siamo scesi in piazza, abbiamo sfilato al Colosseo e mancavano i rappresentati ufficiali della Chiesa. Con noi c’era la comunità di Sant’Egidio, non le istituzioni cattoliche. Mi chiedo le ragioni dell’assenza. Viene il sospetto che la presenza ebraica creasse imbarazzo».

Il genocidio armeno è riconosciuto da venti Paesi tra cui Italia, Argentina, Russia, Francia. Perché non da Israele?
«Bisogna chiederlo alle autorità israeliane. Fino ad oggi anche nei rappresentati delle comunità cristiane ha prevalso il desiderio di risolvere il problema in altro modo, senza arrivare a questo tipo di denuncia formale. Forse per il timore che ciò potesse esasperare i toni. È importante che un passo del genere lo abbia fatto il papa in persona. Dopo un netto atto formale nessuno potrà ignorare la questione: nelle cancellerie e nei consessi internazionali. Un gesto necessario per voltare pagina».

Vede tratti simili alla Shoah?
«Ci sono differenze storiche. È innegabile la gravità di quanto oggi stanno subendo i cristiani. Però gli ebrei di fronte alla Shoah non potevano fuggire da nessuna parte. Gli altri paesi negavano la possibilità di rifugio e di accoglienza, tutti avevano chiuso le porte. Adesso è in corso una mattanza complicata, nella quale identità etniche e appartenenze ai gruppi spesso usano le differenze religiose per mascherare strategie geopolitiche e di predominio economico. Strumentalizzano la fede per il potere».

LA REPUBBLICA - Antonia Arslan: "I nostri cento anni di solitudine, un buco nero scavato nella Storia"


Antonia Arslan e il suo libro più noto, "La masseria delle allodole"

Cent'anni non hanno dormito gli armeni, hanno solo patito, sopportando quel dolore chiuso nel profondo del cuore, sognando un riconoscimento che non arrivava mai dagli “altri”, cioè da tutto il vasto mondo aldilà delle piccole, chiuse comunità della diaspora. Times Square, New York, 2008. Ogni anno, nella domenica più vicina al 24 aprile, migliaia di armeni riempiono la grande piazza, per commemorare il genocidio. In prima fila, sulle loro carrozzelle, i sopravvissuti, ogni anno meno numerosi, ogni anno più stanchi. Dietro di loro, li assistono ragazzi e ragazze orgogliosi delle loro coccarde con la bandiera rosso-bluarancio della lontana, piccola repubblica del Caucaso: la patrianon patria, dato che la gente della diaspora viene dall’altra Armenia, quella delle fertili pianure d’Anatolia, le golden plains, quella che non esiste più. Laggiù tutto è scomparso, dopo la terribile estate del 1915: la vita e le opere, le chiese e i monasteri medievali, le scuole e le fabbriche, i katchkar, le croci di pietra fiorita, simboli di gioia e di rinascita.

Niente resta oggi, tranne le fragili memorie conservate dalle menti amareggiate dei sopravvissuti. Ma ormai loro non parlavano più, a Times Square. Sul palco si avvicendavano vescovi e professori, sofisticati intellettuali e proprietari di catene di negozi (ricordo un fornaio orgogliosissimo che distribuiva panini caldi e sacchetti di patatine gluten free); e un coro di voci stupende cantava le antiche canzoni popolari e i canti di chiesa, raccolti dal raffinato musicologo armeno Komitas Vartabed, che per nostra fortuna percorse tutta l’Anatolia armena prima dell’apocalisse. Ma poi arrivarono i “System of a Down”, e la gente si scatenò. La celebre metal rock band, conosciuta in tutto il mondo giovanile e composta da quattro armeni, non si sofferma su elegiache nostalgie, ma vigorosamente ricorda, ad ogni concerto, l’ingiustizia storica commessa contro gli armeni, dal Trattato di Losanna del 1924 in poi.

Come una pesante coltre di oblio: le bocche cucite, il silenzio, le parole “armeni, Armenia” cancellate dalla percezione del mondo occidentale e dalle carte geografiche; perfino le caratteristiche strutture architettoniche diventate, nella vulgata comune, bizantine, come Ani dalle 1001 chiese, l’abbandonata capitale situata nell’est della Turchia, in un panorama da capogiro. Serj Tankian e i suoi compagni lo gridano in tutto il mondo, non solo nei concerti, ma anche in Screamers , il documentario sul genocidio girato dalla regista Carla Garapedian a Los Angeles. È una musica dura, cattiva, violenta, che scuote le coscienze e vuol far capire a tutti una sofferenza ineludibile e spietata: come sia proprio in seguito all’ottusa pervicacia del negazionismo che il genocidio continua anche oggi, e la negazione della G-Word per quanto riguarda gli armeni è anch’essa una colpa, è anch’essa genocidio.

La show girl Kim Kardashian, in mezzo a chiacchiere e frivolezze, non dimentica la sua origine, e giorni fa è arrivata a Yerevan con la famiglia per la commemorazione del centenario; Amal, la bella avvocata libanese moglie di George Clooney, è fieramente impegnata sul fronte del riconoscimento. E gli armeni sparsi per il vasto mondo, in diaspora da quasi cent’anni, contano chi si schiera al loro fianco, sospirano e sperano: come tutte le comunità piccole e senza grande influenza mediatica e politica, sono immensamente grati se qualcuno che sia conosciuto, che sia importante, si occupa di loro. E oggi, dopo la fiera dichiarazione di papa Giovanni Paolo II nel 2001, alla fine del suo viaggio in Armenia, ecco papa Francesco riprendere e approfondire il discorso, alla presenza dei capi della Chiesa Apostolica, nella solenne cornice di san Pietro e della proclamazione a dottore della Chiesa del grande mistico medievale armeno Gregorio di Narek.

Un passo coraggioso, che viene incontro anche alla progressiva sensibilizzazione sull’argomento della società civile turca, che comincia a interrogarsi, a sentire il disagio di quel buco nero nella propria storia, ma che viene violentemente osteggiato — come sempre, basta pensare alla Francia — dalle posizioni ufficiali governative della Turchia. Certo, gli storici sono quasi all’unanimità convinti della premeditazione e della accurata programmazione dello sterminio, e ulteriori indagini appaiono non necessarie, dopo le innumerevoli testimonianze degli ultimi anni, come ultimamente il libro di Hasan Cemal, nipote di uno dei perpetratori, Djemal Pascià, in uscita da Guerini, o i testi dei diplomatici ebrei appena pubblicati da Giuntina; eppure nel cuore di ogni armeno si annida il sogno — forse ingenuo, ma non è sull’ingenuità visionaria che spesso si muove il mondo? — che questa tragedia oscurata entri nella memoria di tutti, e serva a far comprendere, a riflettere, e ad evitare il male oscuro che rischia di avvolgerci.

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