Riprendiamo dal SOLE24ORE/DOMENICA di oggi, 12/04/2015, a pag.23, con il titolo " Hitler e i fisici della zona grigia", il commento di Vincenzo Barone al libro di Philip Ball " Al servizio del Reich: come la fisica vendette l'anima a Hitler".
Giusto il titolo del libro, molto meno quello del SOLE24ORE e in genrale il commento di Vincenzo Barone, che tende nella sua recensione a giustificare l'adesione al regime nazista della quasi totatlità dei fisici tedeschi. Barone- praticamente- li assolve, portando a loro difesa l'essersi comportati da scienziati e non da politici. Lo fa in mezzo a molte ambiguità, un po' li condanna e poi li giustifica. Una recensione nell'insieme molto criticabile.
Vincenzo barone La copertina del libro di Philip Ball
Il 17 aprile 1933, il governo nazista, insediatosi da poche settimane (Hitler era diventato Cancelliere del Reich alla fine di gennaio) , emanò una legge sui
funzionari pubblici, che rimuoveva dall’ amministrazione dello Stato – e
quindi anche dalle università – le persone di «discendenza non ariana ». F u una data cruciale e drammatica per la scienza tedesca, fino a quel momento la più avanzata al mondo . « Gli ebrei tedeschi – disse Goebbels – possono ringraziare i fuori usciti come Einstein per il fatto che essi stessi oggi, in modo del tutt o legittimo e legale , sono chiamati a renderne c onto» . Einstein si era allontanato dalla Germania alla fine del 1932, all’ indomani della vittoria
elettorale nazista, ma dal 1933 in poi fu la puntuale applicazione della nuova legge a svuotare gli istituti e i laboratori universitari dei migliori cervelli della nazione. Nel volgere di un paio di anni, uno scienziato su cinque fu rimosso
dall’incarico o costretto alle dimissioni (nella fisica la frazione fu di uno su
quattro): molti premi Nobel persero il posto e lasciarono il paese. Ma che cosa successe a tutti gli altri – agli scienziati che n on furono toccati dai
provvedimenti antiebraici e rimasero a lavorare in Germania sotto il regime
nazista? Con pochissime eccezioni, si verificò quello che Hitler aveva
sprezzantemente previsto in un’intervista del 1931: «Credete forse che nel
caso di una nostra vittoria la classe media tedesca rifiuterebbe di servirci e di mettere i suoi cervelli a nostra disposizione ?» . Tra i fisici «al servizio del
Reich» – cu i è dedicato un interessante saggio di Philip Ball , appena tradotto da Einaudi - vene furono alcuni v iolentemente antisemiti e attivi sostenitori del nazismo, come Philippe Lenard e Johannes Stark, entrambi premi Nobel, che si distinsero per le loro c ampagne contro la « fisica giudaica» (rappresentata ai loro occhi soprattutto dalla teoria della relatività) . Ma la compagine più folta fu quella di coloro che, senza partecipare direttamente alla vita politica,
trovarono forme di accomodamento con il regime , per un mal riposto senso di patriottismo e di fedeltà allo Stato. È su questa «zona grigia tra complicità e resistenza», in cui si mossero personaggi di prima grandezza, c he Ball ha
scelto di indagare. La sua attenzione si concentra su tre nomi: Max Planck ,
padre della teoria dei quanti, Werner Heisenberg, uno dei fondatori della
meccanica quantistica, Peter Debye , pioniere della fisica molecolare. Planck e Heisenberg sono figure ben note e ampiamente esplorate. Planck, che all’avvento di Hitler aveva già settantacinque anni, incarnava alla perfezione lo spirito prussiano: rigidamente fedele alle istituzioni, optò per il compromesso e
l ’inazione , convinto che gli aspetti più odiosi del nazismo si sarebbero
attenuati col tempo. Heisenberg, proveniente da una famiglia di tendenze nazionaliste, era l’astro nascente della fisica tedesca, premiato con il Nobel a soli trentuno anni nel 1932. Nonostante non fosse ebreo, fu oggetto nel 1936 di una c ampagna denigratoria da parte di Lenard Stark e dei loro ac coliti, che lo accusarono sui giornali del partito e delle SS di essere il «fantoccio dello spirito einsteniniano » e un « ebreo bianco». Per risolvere la situazione, Heisenberg mise in campo le proprie influenti relazioni. Sua madre c onosceva bene la madre di Himmler, e si recò da lei pregandola di intervenire presso il
figlio a ffinché mettesse a tacere le calunnie. La mossa funzionò: dopo aver
chiesto a Heisenberg una risposta sc ritta alle ac cuse rivoltegli, Himmler proibì ogni ulteriore attacco nei suoi confronti. Incassata la riabilitazione ufficiale dal
capo delle SS, Heisenberg diventò negli anni successivi il più influente
scienziato del Reich. Fu sua la responsabilità del pr ogetto dell’uranio, che avrebbe dovuto portare alla realizzazione di un reattore e di un’arma nucleare. L’obiettivo non fu raggiunto, e quando, alla fine della guerra, i fisici tedeschi, rinchiusi nella residenza di Farm Hall in Inghilterra , seppero di essere stati superati dagli americani, che avevano costruito e fatto esplodere la bomba , rimasero inc reduli, inc apaci di riconoscere la propria inferiorità. Nacque allora il mito dell’ auto-sabotaggio: gli scienziati avrebbero volontariamente
rallentato il proprio lavoro per non mettere nelle mani di Hitler il terribile
ordigno. In realtà, come si evince dalle conversazioni a Farm Hall, Heisenberg e colleghi non erano neanche riusciti a calcolare correttamente la massa critica necessaria per fare avvenire la reazione a catena. Meno conosciuta, e più enigmatica , è la storia di Peter Debye, la cui acc urata ricostruzione rappresenta la parte più originale del lavoro di Ball. Olandese di nascita,
Debye fu per alcuni anni direttore del prestigioso Istituto Kaiser Wilhelm di Fisica di Berlino (finanziato anche dalla Fondazione Rockefeller), ma nel 1939 abbandonò la Germania e si trasferì negli Stati Uniti, fornendo alle autorità americane informazioni sulle ricerche nucleari tedesche. Questa parabola ha fatto credere a lungo che egli fosse una vittima del regime nazista . Qualche
anno fa, tuttavia, sono emersi documenti che attesterebbero la collusione di Debye col nazismo (in particolare, una lettera del 1938 con c ui Debye invitava gli ebrei rimasti nella Società tedesca di Fisica a rassegnare le dimissioni). Ne è scoppiato un caso internazionale, e molte istituzioni intitolate a Debye hanno
rimosso il suo nome. Ball in realtà ridimensiona la vicenda, mostrando come Debye non fosse un fiancheggiatore del regime, ma un uomo di scienza potente e spregiudicato, “ apolitico” nel bene e nel male, interessato solo al successo dei propri progetti scientifici. Il c omportamento della maggior parte degli
sc ienziati che lavorarono nella Germania hitleriana non è interpretabile, a giudizio di Ball, in termini della dicotomia “eroi -malfattori ”. Uomini come Planc k, Heisenberg e Debye non furono né pro né contro il nazismo :
credettero colpevolmente di poter servire la Germania senza al tempo stesso
servire Hitler , e di poter separare, in un regime totalitario e criminale, la scienza dalla politica, dimenticando che fare politica – c ome scrisse una volta
Einstein a Max von Lau, l’unico vero antinazista tra i fisici tedeschi rimasti in patria – significa occuparsi delle «faccende umane nel senso più ampio» . La
loro colpa principale fu l’indifferenza etica: l’incapacità o addirittura il rifiuto – che c ontinuò anche negli anni del dopoguerra – di affrontare la dimensione morale delle proprie azioni . L a lezione generale che se ne può trarre – è la conclusione di Ball - è che la “neutralità” della scienza non deve diventare un alibi per il disimpegno: la c omunità sc ientifica «può e deve organizzarsi per
massimizzare la sua capacità di agire collettivamente, eticamente e – quando è necessario – politicamente».
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