Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 10/04/2015, a pag. 41, con il titolo "La realpolitik di Barack è l'unica strada possibile", l'intervista di Antonello Guerrera a John Feffer.
John Feffer, direttore del think tank americano Foreign Policy in Focus, definisce Obama un politico "realista", capace di fare non scelte ideologiche ma in base a oculate analisi finalizzate all'equilibrio geopolitico. Ci chiediamo se Feffer abbia idea di quello che è il Medio Oriente negli ultimi 4 anni: una polveriera, di equilibrio ne vediamo poco. E Obama ci ha messo molto di suo per peggiorare le cose.
La virata di Obama verso l'Iran, inoltre, è tra le concause che hanno portato all'esplosione dell'estremismo sunnita, che ha preso le forme dello Stato Islamico: una dinamica illustrata da Angelo Panebianco nella sua analisi che pubblichiamo oggi in altra pagina. Come sostiene Panebianco, il sostegno dato da Obama agli ayatollah di Teheran ha provocato non solo la fine dei buoni rapporti politici tra Usa e Israele, ma anche la reazione dei Paesi arabi sunniti, Egitto e Arabia Saudita in testa contro Obama.
Ecco l'articolo:
John Feffer Antonello Guerrera
Barack Obama
«La realpolitik di Obama non ha grande possibilità di successo, almeno a breve termine. Ma è l’unica strada per raggiungere un equilibrio in Medio Oriente e nelle altre aree in fiamme».
A John Feffer, direttore del think tank americano Foreign Policy in Focus, non dispiace il nuovo, delicato corso “alla Metternich” del presidente americano con l’Iran e, più in generale, l’approccio più realista rispetto al suo stesso discorso al Cairo nel 2009.
Non crede che tornando a trattare con paesi autoritari passino in secondo piano i diritti umani? «Certo. Ma bisogna guardare alla realtà. In Egitto, purtroppo, appoggiare un generale come Al Sisi era l’unico modo per cercare di riportare stabilità».
Quindi con Assad in Siria si dovrebbe fare lo stesso? «Qui il caso è molto più spinoso, sia per le spaccature interne all’Amministrazione americana sia per i precedenti proclami del presidente. Tuttavia, il disastro in Siria, nonostante le riserve di Obama, impone purtroppo un dialogo anche con Assad».
Quanto regge il paragone del presidente Usa con Metternich? «Si tratta di un accostamento davvero imponente. Ma può starci. Mentre il predecessore George W. Bush aveva una linea molto più idealista — e abbiamo visto i danni che ha provocato — Obama è evidentemente più realista. Ha sempre pensato che la politica estera americana dovesse basarsi su un “ balance of power ”, un equilibrio di potenze. Obama sarà un vero Metternich, tuttavia, solo se riuscirà a favorire un compromesso tra i blocchi sunnita e sciita, capitanati da Arabia Saudita e Iran. Perciò, l’accordo nucleare è un primo, importantissimo passo in questo senso. Avere Teheran armata e allo stesso tempo arrabbiata non fa comodo a nessuno».
Il caso Yemen, però, è emblematico per i critici di Obama. «Esempio» di stabilità prima, Stato fallito adesso... «È vero. Ma, se vogliamo fare il paragone con Metternich, bisogna ricordare che nel XIX secolo i vari protagonisti nazionali arrivarono stremati dopo decenni di guerre. E quindi collaborarono. Oggi una situazione simile ancora non c’è, perché la guerra fa ancora comodo a quasi tutti i paesi coinvolti, ci sono troppe diatribe lungo i confini e i conflitti interreligiosi sono al loro picco. In questi casi, solo lo spettro di un disastro assoluto come la guerra nucleare o, per rimanere alla realtà, l’orrore della guerra in Siria, può fare da deterrente e innescare un complicato equilibrio basato sul compromesso».
Quindi una abnorme minaccia nell’area, come quella nucleare della Guerra Fredda, potrebbe portare paradossalmente stabilità? «Sì. Qui però ci sono in campo molti più protagonisti, anche non ufficiali, o senza uno Stato. Dunque una “pace” interreligiosa in Medio Oriente è molto ardua da raggiungere. Ma credo che una “ cold peace”, una “pace fredda”, sia l’unico obiettivo realistico in questo senso. E Obama, a differenza di Bush, lo sa bene».
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