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Il Foglio Rassegna Stampa
09.04.2015 A Teheran fanno festa gli estremisti per l'accordo strappato a Obama
Commento di Rolla Scolari, editoriale del Foglio

Testata: Il Foglio
Data: 09 aprile 2015
Pagina: 3
Autore: Rolla Scolari
Titolo: «Che ci va a fare in Israele il controverso inviato di Obama - Se il deal nucleare piace ai falchi di Teheran qualcosa non va»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 09/04/2015, a pag. 3, con il titolo "Che ci va a fare in Israele il controverso inviato di Obama", il commento di Rolla Scolari; l'analisi "Se il deal nucleare piace ai falchi di Teheran qualcosa non va".

Ecco gli articoli:


Le Guardie Rivoluzionarie del regime iraniano all'opera

Rolla Scolari: "Che ci va a fare in Israele il controverso inviato di Obama"


Rolla Scolari        Robert Malley

Milano. Litigano, si beccano ogni giorno di più gli Stati Uniti e Israele dove il premier Benjamin Netanyahu si avvia a essere re per un quarto mandato. Così, Robert Malley, l’uomo che da poche settimane il presidente Barack Obama ha nominato nuovo inviato per il medio oriente, dovrà inserirsi negli screzi tra la sua Amministrazione e un primo ministro che poche ore prima del voto del 17 marzo ha dichiarato che la nazione palestinese non vedrà la luce durante un suo mandato, lasciando stupefatti e infastiditi i leader internazionali, da Washington a Bruxelles. A preoccuparli c’è anche la coalizione che Netanyahu sta costruendo, molto probabilmente formata anche dalla destra ultra-nazionalista e ultrareligiosa, poco incline a compromessi territoriali e di ogni genere sul conflitto israelo-palestinese.

Benché il premier israeliano abbia fatto un passo indietro a vittoria ottenuta – “Voglio una soluzione a due stati sostenibile e pacifica” – il presidente Obama ha detto all’Huffington Post che i commenti di Netanyahu rendono difficile la via del negoziato. Di negoziati in realtà tra israeliani e palestinesi non se ne parla da tempo. Ci sono stati colloqui, infiniti round di colloqui indiretti falliti. Da tempo non ci sono appuntamenti né date cui tendere per rilanciare la road map. Il medio oriente del conflitto israelo-palestinese in cui arriva Robert Malley è quello dello stallo e non certo quello delle trattative del 2000 a Camp David, in cui il nuovo inviato è stato attivo negoziatore nella squadra del presidente Bill Clinton, accanto a Dennis Ross e Aaron David Miller.

Il suo nome in passato aveva fatto nascere qualche controversia che, in un momento di tensione tra Stati Uniti e Israele, è stata ripresa da alcuni giornali israeliani e organizzazioni americane pro Israele. Nel 2008, Malley era consigliere informale per il medio oriente della campagna presidenziale dell’allora senatore Obama. In quel periodo, però, in qualità di direttore del programma mediorientale del think tank International Crisis Group, Malley aveva incontrato diverse volte leader del gruppo islamista palestinese Hamas, sulla lista nera delle organizzazioni terroristiche del dipartimento di stato. E questo gli era costato il posto nella campagna Obama, benché si trattasse di una consulenza informale: era stato allontanato immediatamente dalla squadra e la notizia aveva sollevato le polemiche e attirato su Malley le accuse di avere posizioni anti israeliane. I suoi ex colleghi della squadra clintoniana degli anni in cui in medio oriente si trattava scrissero una lettera sulla New York Review of Books, “In Difesa di Robert Malley”.

“Questi attacchi sono ingiusti, inappropriati e sbagliati”, scrivevano. Tra le firme celebri, accanto a quelle di Dennis Ross e Aaron David Miller, c’è anche quella di Martin Indyk, ex ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, dal 2013 al 2014 inviato speciale di Washington in medio oriente per la ripresa dei colloqui tra israeliani e palestinesi, mai ripresi. La questione del 2008 non ha impedito a Malley di lavorare nel 2014 per la Casa Bianca, al National Security Council, sul dossier del Golfo e dell’Iran (non sulla questione del nucleare di Teheran). Le controversie, però, hanno origine più lontana. Già nel 2001, un suo articolo, sempre sulla New York Review of Books, aveva creato un violento dibattito, era valso all’autore l’accusa da parte di gruppi pro Israele di avere posizioni troppo filo palestinesi. Nel lungo saggio, nato dalla sua esperienza di negoziatore a Camp David, Malley metteva infatti in dubbio la versione dell’“inaudita offerta di Ehud Barak e l’intransigente no di Yasser Arafat”, la versione secondo la quale “il fallimento nel raggiungere un accordo finale è attribuito, senza grandi dissensi, a Yasser Arafat”. “Per un processo di tale complessità – scriveva allora Malley – la diagnosi è straordinariamente superficiale”.

"Se il deal nucleare piace ai falchi di Teheran qualcosa non va"


L'ayatollah supremo Ali Khamenei

Roma. L’accordo preliminare di Losanna sul nucleare iraniano, siglato la settimana scorsa, piace anche ai falchi di Teheran. Sul New York Times di ieri, Thomas Erdbrink ha scritto che “fin dalla Rivoluzione islamica nel 1979, i falchi iraniani sono stati liberi di scendere in strada e protestare contro ogni forma di compromesso con l’occidente, e soprattutto con gli Stati Uniti”. Ma dopo Losanna le cose stanno andando diversamente. Martedì, quando un piccolo gruppo di “hard liners” si è messo a protestare contro i termini dell’accordo nucleare davanti al palazzo del Parlamento, “il ministro dell’Interno iraniano ha condannato la dimostrazione come illegale, perché i manifestanti non avevano ottenuto un permesso”. “Forse è la prima volta”, continua Erdbrink, “che i più conservatori sembrano disconnessi dalla struttura di potere”.

Secondo l’agenzia semuifficiale di stampa Mehr, anche il generale Mohammad Ali Jafari, comandante delle Guardie rivoluzionarie, ha dato la sua benedizione all’accordo, dicendo che “la nazione iraniana e le Guardie rivoluzionarie iraniane ringraziano questi bravi negoziatori per i loro sforzi onesti e per il jihad politico, e per la loro resistenza davanti alle red line”. In seguito questa dichiarazione è stata parzialmente corretta, scrive Erdbrink, ma l’idea che l’establishment iraniano, anche quello più conservatore, abbia stretto i ranghi intorno al deal è piuttosto solida. Narges Bajoghli, ricercatore dell’Università di New York che ha collaborato con molte testate, tra cui il Guardian, la Bbc e l’Huffington Post, scrive su LobeLog, un sito che si occupa di politica estera, che sia tra le Guardie rivoluzionarie sia tra il corpo paramilitare dei Bassij il sostegno al deal nucleare tra l’Iran e l’occidente è molto alto. Dopo Losanna, scrive, “lo spettro dei conservatori aleggiava sia sull’Iran sia sugli Stati Uniti.

I giornalisti indicano nelle Guardie rivoluzionarie e nei Bassij delle forze potenziali che potrebbero distruggere il lavoro del presidente Hassan Rohani e del ministro degli Esteri Javad Zarif”. Ma in realtà la maggioranza dei membri di questi gruppi ha molto interesse ad avere relazioni aperte con l’occidente. Il fatto, dice Bajoghli, è che anche le frange più estreme dell’establishment iraniano sono stremate dalle sanzioni e dall’isolamento internazionale, e che anche le posizioni granitiche delle Guardie rivoluzionarie non sono granitiche quanto sembrano. Per spiegare questa situazione Bajoghli parte dagli anni Novanta, quando dopo l’elezione a presidente di Mohammad Khatami, visto da molti come un riformista, la Guida suprema Ali Khamenei “rafforzò gli elementi più conservatori tra le Guardie rivoluzionarie e orchestrò una pesante repressione contro i riformisti. (…) Il consolidamento del potere da parte da parte dei falchi aumentò durante il primo mandato della presidenza Ahmadinejad”.

Le contestate elezioni del 2009 e l’emersione della Rivoluzione verde hanno costituito però un punto di rottura. Dopo la repressione, che colpì elementi riformisti delle Guardie rivoluzionarie, anche i più conservatori vissero un momento di crisi. “Era la prima volta dalla rivoluzione del 1979 che un’ampia sezione della popolazione chiedeva ad alta voce il cambiamento”. Le Guardie rivoluzionarie e i Bassij furono il braccio armato della repressione, ma anche i falchi compresero che senza un alleviamento delle sanzioni la sopravvivenza della Repubblica islamica sarebbe stata in pericolo. La maggior parte dei figli dei conservatori, scrive Bajoghli, “affronta gli stessi problemi di una larga parte dei giovani iraniani: alta disoccupazione e scarse opportunità di crescita”.

“Qualunque sia la loro posizione nello spettro politico, i membri delle Guardie rivoluzionarie e i Basij considerano la loro priorità numero uno la sopravvivenza della Repubblica islamica. Oggi questo significa mettere a posto la decadente economia iraniana e sollevare le sanzioni. La grande maggioranza delle forze militari e paramilitari a favore del regime capisce che l’Iran ha bisogno di cambiamento soprattutto quando pensano al terribile futuro economico che attende i loro figli”. Il rischio per l’establishment Tra i molti falchi che si sono espressi a favore dell’accordo nucleare però manca il più importante, Ali Khamenei, ma l’entusiasmo per il deal espresso dai gruppi più conservatori “è quasi certamente un riflesso del suo pensiero”, scrive il New York Times.

Secondo Parisa Hafezi, che scrive su Reuters, un eventuale fallimento dell’accordo, con il conseguente mantenimento delle sanzioni economiche, metterebbe a rischio serio l’intero establishment di Teheran: “Le speranze iraniane di porre fine all’isolamento internazionale sono diventate così alte dall’accordo di Losanna che un fallimento genererebbe un livello di delusione che potrebbe danneggiare le autorità, anche se l’occidente viene rappresentato come colpevole”, scrive Hafezi. Dunque le sanzioni all’Iran stavano funzionando, mettevano in crisi anche i falchi del regime, e anche loro, i falchi, ormai speravano in un accordo. Ma questo significa che l’occidente sta scambiando l’efficacia delle sanzioni per delle concessioni nucleari che oggi fanno sorridere anche i più duri tra i membri del regime iraniano. Così, quando parlando al Congresso americano il premier israeliano Benjamin Netanyahu chiedeva retoricamente ai parlamentari americani se l’accordo nucleare fosse un buon accordo o uno cattivo, la risposta arriva oggi dagli endorsement soddisfatti delle Guardie rivoluzionarie.

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