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La Stampa Rassegna Stampa
07.04.2015 In Israele il deserto che fiorisce grazie all'hi-tech
Reportage di Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 07 aprile 2015
Pagina: 29
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Nel deserto hi-tech dove si producono verdure e fiori»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 07/04/2015, a pag. 29, con il titolo "Nel deserto hi-tech dove si producono verdure e fiori", il reportage di Maurizio Molinari.


Maurizio Molinari e il suo recente libro "Il Califfato del terrore"

Risultati immagini per arava desert hi tech
Pannelli solari nel deserto di Aravà, Israele

Igloo di fango per difendersi dal caldo e micropannelli solari per cucinare, produzione di gas biologico dalla distruzione dei rifiuti e materassi bagnati per coltivare verdure e fiori nel deserto: siamo nell’Istituto Aravà di Yotvata, l’angolo più torrido e spopolato del deserto israeliano del Negev, dove una comunità di scienziati e ricercatori cerca senza sosta soluzioni ai problemi quotidiani che assillano gli abitanti dei Paesi più poveri del Pianeta.

Arrivare qui, a tre ore di auto da Tel Aviv, significa immergersi nella frontiera scientifica dove Israele ricerca e sviluppa alta tecnologia e inventiva umana per tentare di trovare risposte ai bisogni della sicurezza alimentare del Pianeta. Il padiglione israeliano dell’Expo 2015 di Milano sarà una finestra su questo laboratorio. Tali Adini, ricercatrice sui «cammini ecologici» del vicino kibbutz di Ketura, ci accompagna in un villaggio di capanne di fango seccato che da fuori assomigliano a quelle che è facile incontrare nelle aree più sperdute in Africa e Asia. «Abbiamo voluto ricreare l’ambiente originale, quello che necessita aiuto e non è collegato a nessun tipo di rete, elettrica, idrica o telefonica», ci spiega Adini, illustrando in ogni capanna come l’alta tecnologia le trasformi in un luogo accogliente.


L'irrigazione del terreno nel deserto di Aravà, Israele

Sementi per terreni salini
C’è l’«igloo di fango», costruito inserendo sacchetti di plastica contenenti fibre capaci di non far penetrare temperature eccessive. Subito dopo si entra in una capanna vuota con al centro una cucina elettrica, alimentata da un micro-pannello solare esterno. Poco più avanti il villaggio di fango offre la possibilità di immergersi nelle tecniche per lo sviluppo della vita nel deserto: riciclare i rifiuti organici per trasformarli in gas biologici, coltivare sementi capaci di fiorire in terreni molto salini, sviluppare le erbe del deserto in materiale per la produzione di biocarburanti. Nel vicino kibbutz di Lotan il «Centro di biologia creativa» si cimenta nella costruzione di analoghe «capanne» di fango e di alta tecnologia. Poco più a Nord, nella stazione di ricerca «Hatzeva», poi, il direttore, Noa Zer, ci accompagna nelle serre dove viene prodotto oltre il 40% dell’export agricolo di Israele. E’ una sequenza a perdita d’occhio di campi di frutta, verdura e fiori, dove le coltivazioni più diverse si sviluppano grazie «alla capacità umana di inventare soluzioni impeviste», spiega Zer, puntando l’indice sui «materassi bagnati, posizionati strategicamente in più direzioni» per dare vita ad un «circolo di aria temperata» grazie «al ricorso a ventole che sfruttano l’aria del deserto».

Nell’Aravà vivono appena 3 mila anime - su una popolazione israeliana di oltre 8 milioni - e si tratta in gran parte di scienziati, ricercatori e pionieri dell’agricoltura hi-tech che, assieme alle rispettive famiglie, scelgono di cimentarsi con una natura avversa, vivendo in kibbutzim o moshavim, le comunità agricole lungo la Valle del Giordano. «Da queste parti siamo in pochi, ma quando ci incontriamo per caso in un campo coltivato nel caldo torrido - ci dice Yaakov, immigrato da Filadelfia oltre 30 anni fa - nascono amicizie destinate a durare». Nulla da sorprendersi se a Sapir, a metà strada fra Hatzeva e Yotvata, il «Keren Kayemet Le-Israel» - il Fondo nazionale ebraico che si cura dello sviluppo della natura in Israele sin da prima della nascita dello Stato - ha creato una scuola di agricoltura che accoglie centinaia di studenti del Terzo Mondo. Quando arriviamo, ci sono quattro classi, ognuna con alunni provenienti da Myanmar, Vietnam, Indonesia e Sud Sudan. Sono le bandierine nazionali fuori dalle porte a indicare la nazione di provenienza.

I giovani dal Terzo Mondo
I giovani, quasi tutti ventenni, fanno a gara nel raccontare l’esperienza in corso. «Sono venuta qui senza sapere nulla di Israele - dice Nuri, birmana - e ho scoperto di poter aiutare il mio villaggio a gestire meglio l’acqua nei campi». George, del Sud Sudan, si sofferma invece sull’elemento del «numero»: «Gli israeliani sono pochi e hanno un Paese piccolo, ma producono molte idee e ciò può essere d’esempio per una nazione piccola e giovane come la nostra». Nell’aula degli indonesiani c’è un elemento in più, perché Jakarta non ha rapporti diplomatici con lo Stato Ebraico. Gli studenti di agricoltura raccontano il lungo percorso fatto per ottenere i visti, esprimendo la speranza di «poter ripetere nei nostri villaggi i miracoli di vita nel deserto a cui assistiamo qui ogni giorno», come dice un ragazzo di 26 anni, chiedendo l’anonimato. La scommessa dell’Istituto Aravà è di trasformare l’agricoltura hi-tech in un ponte verso il Terzo Mondo e fra i progetti più recenti c’è «Solchi nel Deserto» che ha visto uscire dalle aule del Negev gli abitanti del villaggio di Turkana, in Kenya. «Ragazzi straordinari», dice di loro Moti Harari, docente di «trattamento di terreni aridi».

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