In Medio Oriente contano i fatti, non le parole
Commento di Mordechai Kedar
(Traduzione dall’ebraico di Rochel Sylvetsky, versione italiana di Yerhudit Weisz)
L’analisi degli eventi che si sono verificati negli ultimi anni in Medio Oriente, indica che l'elemento più potente, centrale e influente non è quello verbale, non i discorsi, le promesse, i documenti e gli accordi, ma le azioni sul terreno e le minacce di violenza che li accompagnano. Non mancano gli esempi a confermare questa regola.
Quello dell’Egitto è il più evidente. Nel giugno del 2012, alle prime elezioni democratiche mai tenute in quel Paese, fu eletto presidente Mohamed Morsi. Poco più di un anno dopo, nel luglio del 2013, s’insediava il Ministro della Difesa Abdel Fatah al-Sisi e Morsi venne deposto. Tutto il mondo insorse, Obama raggiunse il punto di ebollizione, e gli Stati Uniti congelarono i loro aiuti militari all’ Egitto. Tutti pretesero che Sisi rimettesse Morsi al suo posto, ma lui si rifiutò. Sisi ha poi indetto elezioni democratiche e le ha vinte. Questa settimana, venti mesi dopo la deposizione di Morsi, Obama ha finalmente capito che il suo sogno di realizzare l’egemonia dei Fratelli Musulmani sull'intero Medio Oriente deve essere messo in soffitta. Ha telefonato a Sisi e gli ha detto che gli Stati Uniti rinnoveranno gli aiuti militari all’ Egitto. La fermezza di Sisi ha pienamente ripagato, essendo riuscito a imporre la propria agenda al Presidente degli Stati Uniti.
Un altro esempio è Assad, dittatore e assassino di massa, che ha ucciso decine di migliaia di suoi cittadini nel corso degli ultimi quattro anni, mentre il mondo è rimasto a guardare la carneficina senza muovere un dito. Quando ha attraversato la più rossa delle linee usando armi chimiche contro il proprio popolo, quelle linee di fronte ai nostri occhi sono sembrate diventare rosa, poi bianche e infine trasparenti. Il mondo condanna, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adotta decisioni senza senso, ma il comportamento criminale di Assad continua ed è l'unica ragione per cui lui domina ancora su parte della Siria. Le sue azioni parlano più forte di tutte le parole pronunciate dal mondo e dai vari leader.
Hezbollah è un’organizzazione terroristica armata, dotata di decine di migliaia di missili, riconosciuta tra l’altro colpevole dell’omicidio del precedente Primo Ministro libanese, Rafik al Hariri. Dopo la Seconda Guerra del Libano, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva proibito all’organizzazione di riarmarsi, ma queste belle parole non l’ hanno impedito. Per di più, l’Europa sta collaborando con il "braccio civile" di questa entità terroristica che ha preso il sopravvento sul Libano. In altre parole, non importa quel che dice il mondo, ma conta quel che fa Hezbollah. Il fatto che uccida cittadini siriani, non ha finora provocato nessun intervento, sembra che il mondo non si renda conto che le parole non avranno il potere di cambiare questa realtà.
Da anni l’Iran si sta muovendo verso l'acquisizione di armi nucleari, un punto di svolta per la sua politica regionale e mondiale. Il mondo intero ne parla, si fanno bei discorsi, si scrivono documenti, si pubblicano articoli, si firmano accordi ma tutti i miliardi di parole versati in ogni angolo della Terra su quest’argomento, non hanno indotto l’Iran a fermare i suoi piani nucleari per un solo istante. Solo nel 2003, quando l’Occidente ha invaso l’Iraq, l’Iran ha sospeso per un qualche tempo lo sviluppo del suo progetto nucleare, per poi riprenderlo nel 2006, quando si rese conto che nessuno voleva invadere il suo territorio, nonostante tutte le prove del coinvolgimento iraniano nella rivolta irachena, e nonostante il fatto incontrovertibile che l’Iran - indirettamente, ma volutamente - aveva causato la morte di migliaia di americani e di altri soldati in Iraq fino al 2010. Quel che influenza il comportamento iraniano non è ciò che si dice di quel Paese, ma ciò che si fa o non si fa contro il regime iraniano. Le sanzioni economiche potrebbero influenzare la politica iraniana sul nucleare, perché le sanzioni sono un’azione pratica, e quindi efficace, ma qualcuno alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha deciso che è meglio sostituire le parole alle azioni. In Medio Oriente, le parole sono prive di significato. Gli iraniani sono pronti ad offrire parole condiscendenti, sorrisi e accordi, ma i loro comportamenti sono l’esatto opposto di ciò che promettono. L’Iran è tenuto al rispetto della decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che vieta di esportare armi, ma queste parole scritte hanno mai impedito agli ayatollah di rifornire armi alla Siria? Agli Hezbollah in Libano? A Hamas e alla Jihad islamica a Gaza? Alle milizie sciite in Iraq? Ai curdi nel nord dell'Iraq? Al regime di Assad in Siria? Agli Houthi in Yemen?
Le parole restano sulla carta, ma sono le azioni dell’Iran ad essere reali. E’ da anni che l'Iran si sta armando, che finanzia e addestra in Yemen gli sciiti Houthi, la cui battaglia per il controllo del Paese era cominciata già nel 2004 con gli attacchi a Sa'dah, nel nord del Paese. Gli Houthi sono diventati sempre più forti fino a prendere il controllo della capitale Sa'ana diversi mesi fa e a trasformare lo Yemen in un bagno di sangue.
Tutti i bei discorsi sullo Yemen, su una sua unità nazionale così come su una sua frammentazione in settori autonomi, non sono stati di alcuna utilità, dato che gli Houthi hanno continuato la loro inarrestabile avanzata. Le azioni degli Houthi hanno più valore di qualsiasi decisione e di qualsiasi documento. E’ proprio questo che ha spinto l’Arabia Saudita, l’Egitto e altri Stati sunniti a prepararsi ad una guerra vera, non ad una guerra di parole, contro gli Houthi, che essi giustamente vedono come il braccio yemenita della piovra iraniana.
Lo Yemen è anche un palcoscenico sul quale gioca un suo proprio ruolo l’organizzazione temuta dal mondo intero, al Qaeda, che cresce, avanza e ottiene il controllo su sempre maggiori territori. Ha raggiunto il punto in cui la sua derivazione, lo Stato Islamico, si è installata nel 2004 in Iraq, ha strappato il controllo di più di un terzo della Siria, un terzo dell’ Iraq; il mondo vive nella paura degli attentati jihadisti e della possibilità che la sua rivoluzione possa essere esportata in Europa, America, Australia.
Gli attacchi jihadisti hanno un impatto molto più grande rispetto alle condanne che vengono rivolte contro di loro, molto più delle decisioni, degli articoli e delle caricature che ne fanno gli avversari. A Gaza, sulla carta è l’Autorità palestinese ad essere in carica, ma il controllo reale è nelle mani dell’organizzazione terroristica islamica Hamas. Quante parole si sono sprecate su questa folle situazione ? Come possono gli accordi essere stati firmati da entrambe le parti? Nulla può incidere sulla realtà, è Hamas che governa con la forza a Gaza e che dice all’Autorità Palestinese di andare all'inferno.
Neppure Israele è riuscito a modificare la realtà dei fatti. Israele si rende conto delle molte promesse fatte dai vari Presidenti americani su questioni cruciali, come il blocco del progetto nucleare iraniano, l’appoggio al mantenimento di blocchi d’insediamenti in Giudea e Samaria e la sua contrarietà al riconoscimento di uno Stato Palestinese in seno al Consiglio di Sicurezza. Ma tutte queste erano solo parole. Che cosa sta succedendo a proposito delle rassicurazioni verbali che Israele ha ricevuto? L'Iran continua il suo progetto nucleare - e farà così dopo la firma finale dopo accordo di Losanna e l'America sta creando uno Stato Palestinese in Giudea e Samaria, anche se nessuno a Washington può essere sicuro, o promettere, che non si trasformerà in un Hamastan.
Israele deve trarre una conclusione chiara e nitida: smettere di parlare e iniziare a fare ciò che deve essere fatto. Si deve porre fine all’Autorità Palestinese prima che si trasformi in un altro Stato di Hamas e istituire otto Emirati sulle sue rovine: quello di Gaza è in vigore da otto anni ma altri sette devono essere costituiti nelle città arabe di Giudea e Samaria – Jenin, Schem, Tulkarem, Kalkilya, Ramallah, Gerico, le zone arabe di Hebron - e devono essere governati da hamulot locali (potenti famiglie tribali allargate), mentre a Israele rimane il controllo del Paese con tutti i suoi “insediamenti”ebraici intatti.
Israele deve imparare da Sisi, l’uomo che è riuscito con successo a forzare il comportamento di America, Europa e di tutti coloro che gli si opponevano.
Solo le azioni hanno un effetto sulla realtà in Medio Oriente, e per tutti quelli che hanno la memoria corta ricordiamo: anche Israele è stato fondato quando il popolo ebraico si è sentito nauseato e stanco di parole, e ha cominciato ad agire. Da noi non si parla. Noi agiamo. Chi parla di solito non fa nulla, non ha voglia di fare nulla, sperando che le parole saranno in grado di nascondere la propria inazione.
Il nuovo governo di Israele deve lavorare unito su un piano pratico, non su uno fatto solo di verbosità e “accordi” , e cominciare ad attivarsi per mettere in campo i fatti. Nel lungo periodo, il mondo accetterà la realtà del Medio Oriente, anche se sgradevole, perché è così che funziona questa regione.
Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi
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