Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 30/03/2015, a pag. 1-3, con il titolo "Hanno scelto la libertà, la vera primavera è appena cominciata", l'analisis di Domenico Quirico.
Domenico Quirico
La manifestazione di Tunisi contro il terrorismo
Non so se questo sia il momento per una dichiarazione d’amore, per una dichiarazione di fede. Nella Grande Guerra del nuovo millennio farsi illusioni è colpevole. A Ovest a Est a Sud il califfato trionfa, le coalizioni per svellerlo si decompongono nel caos, il suo miglior alleato, Abu Bakr trionfa. Eppure…
Manco da qualche mese dalla Tunisia, ma non immaginavo una simile moltitudine. È stata in un certo senso una rivelazione. Si muovevano come uccelli in migrazione, come un popolo unito, marciavano. In cammino di nuovo come quattro anni fa in un’altra primavera. Come lo hanno deciso? Come si sono organizzati? Come sono arrivati? Tunisi si è riempita di gente convocata misteriosamente e rapidamente come uccelli, a solo undici giorni dalla strage del museo del Bardo, ventun turisti e un poliziotto uccisi da un commando islamista.
Senza retorica
Una calda domenica di primavera con i fiori che delimitano i prati dei palazzi del potere e l’erba di un verde accecante. D’un tratto, dalla retorica scoperchiata a impazienza di popolo, i tunisini hanno calato giù, senza eruditi preamboli, la cosa più urgente e concreta che ci sia: uomini che soffrono ma stanno insieme, ragionano, sanno scegliere. Quel fardello penzolante rovescia la stomachevole inutilità delle parole in un’altra eloquenza, quella di gente povera e sfortunata, di occhi pieni di Storia senza pietà. Poche centinaia di metri, ma bastano: l’unico comunismo autentico, senza accenti o declinazioni, quello della condivisa sofferenza, quello che solo i poveri e gli afflitti, in qualsiasi parte del mondo, sanno parlare.
Nel loro comportamento c’era una forte consapevolezza della propria serietà, del proprio dovere ad esser lì. Quella presenza in strada offendeva gli estremisti, gli «odiatori» senza speranza e senza la minima volontà di riscatto. Ed è giusto che fosse così perché era la conferma che i tunisini hanno scelto la libertà, che non intendono farsi fuorviare dalla follia totalitaria. Quello che chiedono è semplice: basta ammazzare, chiunque, dovunque.
«Tunisia libera, terroristi fuori!», scandivano con voci calme. Domani il sole non sorgerà su un mondo nuovo, purtroppo, ma quello di ieri non è stato un giorno sprecato. Uno dei caratteri salienti del totalitarismo, islamista e non, è la perdita del senso di responsabilità. Si punta ad esimere l’uomo dalla responsabilità delle sue azioni. Il vero potere delle tirannidi impersonali, l’istante in cui l’uomo dice: sono i più forti… che posso farci? Questo è il momento dell’angoscia del nostro tempo costretto a misurarsi con il Califfato. I tunisini, invece, hanno affermato: «Ecco cosa farei perché è necessario, e cosa mai possono ancora farci?».
Condizioni difficili
Alcuni ingenui vorrebbero farci credere che la Tunisia, in fondo, gode ottima salute. Ma come potrebbe mai? Fiaccata da regimi parassitari, anche dopo la primavera dei gelsomini, all’oscuro di molte cose fondamentali, menomata da perversa benevolenza verso l’estremismo, (come hanno ricordato i partiti del Fronte popolare, accusando gli islamisti governativi di Ennahda di essere ipocriti), afflitta dalla povertà: come potrebbe mai godere di ottima salute? Impossibile! Eppure, nonostante questo, il cuore di questo piccolo Paese possiede davvero una integrità naturale, un caparbio senso della comunità. Si sentono lì, anche ieri, voci e canti con un senso tenero di una vita popolare perenne, quale è da secoli, e quale sarà forse per sempre; una vita protetta dalle memorie, confortante nell’affanno di oggi. Siamo noi ad averne bisogno, non loro della nostra taccagna elemosina. Allora come possiamo attingere a questa sorgente di stabilità e di significati? Non fingendo di essere stati sempre al loro fianco. È falso. Dopo l’accensione della Primavera, la curiosità che suscitava, la speranza della scoperta di forze ignote in quella parte del mondo che dicevamo immobile e arretrata, la Tunisia è tornata nella sua condizione di prima agli occhi dell’occidente, attraente come paese, ma con una sorta di diffidente fastidio verso la sua umanità. Siamo stati amici dei loro tiranni, abbiamo cacciato brutalmente i loro ragazzi migranti, ragazzi che ieri sfilavano nella capitale (quelli che per la delusione non sono diventati islamisti e assassini). Sì, in fondo l’unica nota stonata erano i notabili stranieri, fuori tema, sciupacchiati, preoccupati di se stessi, della loro esteriorità, spiravano una frigida vitalità esteriore, per la facciata, per far colpo.
Dell’orrore abbiamo fatto il nostro compagno quotidiano, quasi che non dipendesse da noi allontanarlo. Quasi fossimo impotenti di fronte ad esso. Il tempo in cui cominciano i fatti indescrivibili e difficili da capire per una mente d’uomo: è già accaduto e sono quelli di oggi. La realtà terrificante di questa strage senza confini è talmente nuova da non riuscire a raccontarla al punto che vi si rinuncia. Per viltà. Mancano i termini di paragone. Si aspetta la fine della cattiva stagione. Come una speranza. Mai credo si aspettò così. Ci si contenta che il tempo diventi più mite, che torni la primavera, il sole. Le speranze dell’occidente sono ridotte a questo. I tunisini di ieri ci hanno insegnato qualcosa.
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